Eduardo Galeano, morto ieri a Montevideo all'età di 74 anni - dopo una lunga lotta con un tumore al polmone -, è stato uno dei grandi della letteratura sudamericana del Novecento. Nato proprio a Montevideo il 3 settembre del 1940 in una famiglia della piccola borghesia, le sue prime passioni furono, il calcio la pittura e la politica. Il calcio, come «fiesta», la pittura come aspirazione professionale in grande stile «volevo essere Picasso». Non andò così, anche se non aveva una cattiva mano: il suo inizio giornalistico, a soli 14 anni, fu con una vignetta per El Sol , settimanale del Partito socialista uruguaiano. Poi però la parola scritta si impose alle immagini. Tra il 1961 e il 1964 diresse la rivista culturale Marcha , cui collaborava, tra gli altri, Mario Vargas Llosa. Poi, dal 1964 al 1966, Epoca , altra testata di sinistra. All'inizio la sua vocazione letteraria si incanalò perfettamente nella dimensione dell'articolo.
Molti dei suoi pezzi sono diventati dei classici del giornalismo sudamericano. Il suo primo racconto con ambizioni di narrativa pura è del 1963: Los dias siguientes . Lui stesso lo definì in seguito «abbastanza una schifezza». Da lì a poco però arrivò quello che fu accolto come un capolavoro: Le vene aperte dell'America Latina . Il libro, un saggio con forte vena narrativa, venne pubblicato nel 1971. Molto legato al clima culturale dell'epoca denunciava con forza lo sfruttamento del continente da parte delle multinazionali straniere. E gli costò caro. Quando nel 1973 i militari presero il potere in Uruguay, fu imprigionato e costretto a fuggire. Andò in esilio in Argentina, ma nel 1976, anno del colpo di stato del generale Videla, fu inserito nella lista dei condannati dagli «squadroni della morte» e riparò in Spagna. Intanto Le vene aperte fu vietato anche nel Cile di Pinochet. Tornò in patria solo nel 1985, quando in Uruguay fu ripristinata la democrazia.
Nel frattempo il libro era diventato un vero e proprio simbolo. Tanto per dire Hugo Chávez lo regalò a Barack Obama quando si incontrarono nel 2009. La cosa buffa però è che, mentre tutto questo accadeva, Galeano era già passato oltre. L'anno scorso lo ha spiegato alla Biennale del libro di Brasilia ad un pubblico esterrefatto: «Quel libro non voglio più rileggerlo. Non mi pento di averlo scritto ha detto ma è certo che quando l'ho scritto non avevo una preparazione economica sufficiente e il linguaggio è d'una insostenibile pesantezza». Mentre invece sono dotate di una prosa molto più convincente la Trilogia La memoria del fuoco oppure il più leggero e giocoso Splendori e miserie del gioco del calcio del 1997. Il senso di questo sport? Secondo Galeano che lo ha trasformato in letteratura: «Siamo mendicanti di bellezza, e il calcio ci riempie gli occhi».
E parlando di pallone, Galeano riusciva comunque a prendersela contro quella che secondo lui era l'eccessiva commercializzazione. Ma sempre con ironia e auto-ironia: «Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che abbia mai calcato i campetti del mio Paese».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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