«Che cos’è la famiglia? Un appuntamento al buio come tutta l’America»

«Che cos’è la famiglia? Un appuntamento al buio come tutta l’America»

C’è almeno un nome che ha un senso accostare a quello di Jonathan Franzen, tra quelli arrivati in libreria in questi giorni. È un paragone che l’interessato non ama, eppure l’esordio di Eric Puchner, Model Home (Cult Editore, pagg. 350, euro 15,90), monumentale quanto stupefacente storia dell’ascesa e caduta, psicologica, psicotica ed economica, di una famiglia californiana, gli Ziller, marito, moglie e tre figli, a metà degli anni ’80, lascia a fine lettura lo stesso gusto amaro dell’indimenticabile che ci lasciò Le correzioni. Forse proprio perché non gli vuole assomigliare.
Giovane, carino e pluripremiato, in lista per l’IMPAC e per il PEN/Faulkner, Puchner ha scritto racconti per GQ, Chicago Tribune, Sun, Zoetrope e un infinito elenco di altre testate. Poi ha cominciato a pubblicarli e a insegnare letteratura alla Stanford University. Poi ha sposato una delle più promettenti scrittrici americane, Katharine Noel. E infine si è deciso a esordire con il suo primo, ambizioso romanzo, che gli è costato cinque anni di lavoro: humour da West Coast, stile europeo - il Nouvel Observateur l’ha definito «il Jonathan Coe americano» - e nessuno scrupolo ad essere crudele e definitivo, come la vita.
Il protagonista del suo fortunato esordio è la famiglia americana. Proprio come nelle Correzioni di Franzen...
«Ammiro quel romanzo, anche se non potrei dire che abbia avuto un’influenza primaria su di me. Però una cosa che ho amato del libro di Franzen e che ho sperato di eguagliare con Model Home è la critica complessiva della società americana attraverso la lente di una singola famiglia. La dimensione politica è sposata con quella domestica in un modo che risulta naturale e per niente didascalico».
Eppure la famiglia non è un argomento nuovo, in letteratura.
«Non solo. Non è un argomento tipicamente americano: pensi a Shakespeare, Jane Austen o Tolstoj».
Qual è, allora, la sfida tipicamente americana?
«Che la famiglia sia il microcosmo della nazione: un gruppo di persone così diverse costrette a vivere in prossimità, ad accettare o rifiutare le colpe altrui, senza essersi scelte e nonostante la mancanza di affinità profonde. Un enorme appuntamento al buio, come l’America».
C’è una lobby letteraria negli Usa?
«Esistono comunità di scrittori, locali, non nazionali. Ne ha una Brooklyn e una San Francisco. Ma in generale gli scrittori in America sono meno riveriti che in Europa. In un ceto senso, si pensa che truffiamo il sistema e che dovremmo trovarci un “vero lavoro”. Ma la verità è che non conosco nemmeno uno scrittore americano, anche famoso, che riesca a vivere di scrittura e che non abbia anche un vero lavoro».
Spunti autobiografici?
«Warren Ziller fa una scelta fallimentare dal punto di vista economico e finanziario trasferendosi con la famiglia in California e ne paga un prezzo altissimo. Proprio come mio padre».
Collasso, depressione, disagio, disastro: quello che accade agli Ziller negli anni Ottanta è quello che accade a noi oggi?
«Il sogno americano è un mito a brandelli. Le valli della California del Sud, su cui ho fatto ricerche per il romanzo, hanno nomi paradisiaci che oggi sembrano surreali. Alla fine del libro, Qarren, il patriarca, si trova a confrontarsi con la ragione del proprio fallimento privato: l’incapacità di distinguere tra l’assicurare ricchezze alla famiglia e il saper provvedere ai bisogni dei propri cari».
Questo spiega la crisi mondiale?
«Questo romanzo racconta una storia universale.

La perdita del senso di comunità, l’assurdità della nostra ossessione per la “sicurezza”, la tendenza a confondere la proprietà con la realizzazione di sé: tutte queste trasformazioni sono accadute ben prima che l’economia toccasse il fondo. Per questo uno dei punti focali del romanzo è che nella precarietà non vi è nulla di nuovo».

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