Cultura

«Ecco, lì c’è un Boetti». Boetti quello delle mappe, Boetti quello degli arazzi, Boetti quello degli alfabeti pazzi, Boetti quello delle biro, Boetti quello ossessionato dalla serialità. Talmente ossessionato da decidere una mattina dell’autunno del 1972 che lui stesso non era «uno» ma il suo doppio, e che da allora in poi avrebbe potuto firmarsi «Alighiero e Boetti». Se c’è un artista della stagione Povera così poco «anni Settanta» e così contemporaneo da mettere in pace l’ortodossia concettuale e i restauratori della forma, questo è Boetti, mai preso troppo sul serio negli anni della «guerriglia» capeggiata dal guru Germano Celant. Troppo pazzarello, troppo colorato, troppo poco torinese lui che ai cortei della città operaia preferiva di gran lunga le montagne silenziose dell’Afghanistan dove incontrava le ricamatrici a cui commissionare le sue paradossali tapisserie. Che oggi, sul mercato dell’arte, valgono una fortuna. «Con quelle opere diceva di aver creato le prime immagini pop-concettuali», sorride la vedova Annemarie Sauzeau che in questi giorni a Parigi celebra la più importante antologica francese dell’artista, negli spazi della galleria Tornabuoni Art. Proprio la Sauzeau, direttrice dell’Archivio Alighiero Boetti a Roma, ha appena presentato il catalogo generale a cura di Jean-Christophe Ammann, che mette finalmente ordine nell’opera di un autore, ahimè, molto falsificato proprio per l’elementarità delle tecniche e il suo trasformismo. Che lo faceva spaziare dai monocromi tratteggiati a bic alle famigerate opere su stoffa, dai puzzle intitolati Tutto (perché ci metteva di tutto, figure di rotocalchi o oggetti da scrivania) ai «lavori postali», dove giocava sui significati dei francobolli e sulla «segreta bellezza dei fogli inviati nelle buste».
Boetti fu un po’ snobbato dai suoi compagni di viaggio, basti pensare che Celant «se ne dimenticò» quando ebbe l’incarico di organizzare a Londra la prima grande retrospettiva sull’arte italiana. Ma il tempo e il mondo gli resero giustizia a partire da quando, quasi alla vigilia della sua prematura fine, ricevette il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1990. Oppure quando, nel dicembre del ’93, espose al Magasin di Grenoble una monumentale installazione composta da 50 kilim fatti eseguire da allievi e amici. Fu la consacrazione internazionale, e anche la sua ultima mostra.
La riconoscibilità di Boetti, che il mercato internazionale guarda oggi come al futuro Lucio Fontana, sta in una felice contraddizione ovvero, come direbbe lui, nella sua ricerca del «Doppio». Infatti, pur essendo l’artista esteticamente più «facile» della sua generazione - l’unico poverista in cui il disegno e il colore sono al centro dell’opera - è forse quello in cui il concetto è più sottile e anche più «contemporaneo». Lo è nei temi trattati, come quello dell’identità (nel lavoro Gemelli, presentò un fotomontaggio che ritraeva se stesso che tiene per mano un altro se stesso), del caos, della mescolanza dei linguaggi, della multiculturalità, del superamento dei confini. Basta guardare le sue coloratissime «mappe», in cui è racchiusa l’ironica narrazione del mondo come moderna Babele di pluralismi e incomunicabilità. Boetti faceva disegnare tra Roma e Genova le cartografie del globo colorate con i disegni delle bandiere nazionali, modificate ogni volta in virtù degli sconvolgimenti politici. A realizzarle concretamente erano alcune ricamatrici afghane emigrate a Peshawar, da lui ingaggiate sulla base di un’idea ben precisa: interporre tra l’artista e l’opera i concetti di «spazio» (l’Afghanistan) e di «tempo» (quello necessario al lavoro di ricamo).

«Il lavoro della mappa ricamata - disse nel ’74 - è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente e non ho scelto niente, nel senso che il mondo è fatto com’è, e non l’ho disegnato io: quando emerge l’idea, il concetto, tutto il resto non è più da scegliere».

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