Spesso si parla di letteratura quando la letteratura non c'è. Oppure c'è, ma si fa come se non ci fosse. Si può passare una vita a parlare di Dante o di Leopardi in loro assenza. A interpretarli. A mettere loro in bocca parole che sono soltanto nostre.
Già, «mettere in bocca». Che espressione sconsolata! Un vero scrittore non mette in bocca nessuna parola ai suoi personaggi, perché un vero scrittore sa che i personaggi non sono suoi, e che le loro parole sono le loro, e non le sue. Ma un grande romanziere, se grande è, non lo si interpreta: lo si legge, e allora lo si capisce, lo si ama, lo si fraintende, e tutto questo capire e non capire entrerà a far parte del suo destino, del destino della sua opera, ne segnerà il percorso, la forma della sua fortuna, che per i grandi scrittori è diversa da persona a persona - così come è sempre uguale (mi spiace contraddire Tolstoj) la fortuna degli scrittori modesti: caso letterario, ottime recensioni, scalata in cima alle classifiche, saggi dedicati, saturazione, noia, dimenticanza.
La fortuna, o meglio il pezzo di fortuna toccato finora all'opera di Eugenio Corti (classe 1921) dipende soprattutto dalla sua grandezza. Non penso, sinceramente, che l'essere stato osteggiato da una certa cultura laicista dominante, il fatto cioè di non essere piaciuto ai maggiorenti della cultura italiana, sia un elemento importante di questa storia. Non ho mai voluto verificare se questa ostilità ci sia o meno, perché a me queste cose interessano poco. Le innumerevoli ristampe e la diffusione planetaria di opere come Il cavallo rosso o delle terribili pagine de I più non ritornano dimostrano come l'avversione ideologica sia alle volte un bene. La repressione non ha mai ucciso la verità.
Certo, il fatto che un testimone oculare degli orrori della guerra in Russia sia tornato con una versione dei fatti che fa a pugni con il racconto ufficiale, quello che ha fatto da fondamento al nuovo mondo che stava per nascere, gli ha procurato molti nemici e molti silenzi, ma perché lagnarsi di questo? Non è questo il destino di ogni vero scrittore?
Se lo scrittore non cercasse di dar voce allo strazio che il cemento dei diversi poteri cerca di seppellire come un reattore nucleare in avaria, a che servirebbe mai il suo lavoro? Che soddisfazione può trarre uno scrittore al pensiero di aver ricevuto onori, posti in parlamento, premi, inchini, lodi universali? Che piacere può trarre - se non un piacere arido, senza vita - uno scrittore dal pensiero che tutto l'odio seminato intorno a sé è stato tenuto sotto silenzio dalle convenienze politiche, dalla diplomazia della forza, dagli input del potere?
Esistono naturalmente molti scrittori «di regime» che sono, nondimeno, grandi scrittori, perché il talento ci vuole sempre, sia per opporsi al Pensiero Unico sia per edificarne il monumento. Io però mi rifiuto di considerare Eugenio Corti una vittima di qualcosa. Andate a trovarlo, parlate cinque minuti con lui, e vi accorgerete che Eugenio Corti non è una vittima. Gli incontri personali che ho avuto con lui hanno sempre portato il segno di una forza vitale fuori del comune, e più d'una volta mi è capitato di pensare che tale doveva essere la sensazione per chi aveva la fortuna di incontrare Tolstoj, o Manzoni. Eugenio Corti non è mai stato seppellito né dai nemici né dagli amici adoranti - che in determinate circostanze possono essere anche peggio dei nemici. Non consideriamolo un ideologo anticomunista avversato dai comunisti: Eugenio Corti, qualunque sia il suo pensiero, è innanzitutto un grandissimo narratore.
Non mi occupo delle sue opinioni sull'ideologia. Non mi occupo della sua posizione sugli anni successivi al Concilio Vaticano II (che gli ha procurato diversi nemici anche dentro la sua amatissima Chiesa Cattolica). Su molte cose non la penso come lui, ma queste divergenze sono niente, sono come discutere del colore delle scarpe di uno scrittore. È del grande scrittore, e soprattutto del grande narratore, che bisogna cominciare a parlare.
Il mondo ha bisogno di narratori. Non di scrittori: di narratori. Non di racconti, ma di narrazioni. Il racconto è il prodotto di un soggetto (il mio racconto, il tuo racconto, e così via), la narrazione invece è qualcosa che esiste nel mondo, un grande fiume che raccoglie tutto quello che ci fa vivere o che ci uccide, la pena, il dolore ma anche la felicità improvvisa, o quello che i sociologi bugiardi chiamano «disagio», che non è altro che il grido che erompe dal cuore di chi sta dentro una baracca e non sa come dar da mangiare ai suoi figli, ma anche dal cuore di un ricco prigioniero della sua casa da sogno, della sua Ferrari, della sua indifferenza al modo in cui impiegherà il proprio tempo: lavorare, dormire, avere un flirt, fare del bene, non farlo... Che ne dite di un titolo come «Il disagio del filantropo»?
La narrazione è del tutto indifferente agli indirizzi del potere e al racconto che vuole imporre. Il racconto del potere è parte - una piccola parte - della grande narrazione del mondo, che ha come unico oggetto la verità dei fatti, la loro nudità: le versioni ufficiali non sono che un frammento, un fatterello dentro il grande flusso.
E i narratori sono i rabdomanti, coloro che, camminando sulla lastra di cemento - ossia di silenzio - che ci separa sempre (non ora: sempre) dalla verità dei fatti si soffermano là dove sentono che la lastra è più sottile, e praticano, con cautela ma anche con decisione, dei piccoli buchi, poi in quei buchi infilano una mano, poi un braccio, poi ci s'infilano tutti, e scendono giù, armati di una piccola luce (perché l'ingegno è quello che è, e anche l'uomo più intelligente è comunque un babbeo di fronte al Vero), e cominciano a esplorare, ben sapendo che quello che vedranno è sempre solo una piccola parte di quello che c'è.
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