Grand Hotel Cremlino Comunisti sì, ma di lusso

Grand Hotel Cremlino Comunisti sì, ma di lusso

Dal 16 al 19 novembre del 1957, al Cremlino si svolse la prima Conferenza internazionale dei partiti comunisti e operai. A Mosca, regnava Nikita Krusciov e Stalin era un padre-padrone di non più venerata memoria, da cui i russi avevano cominciato a prendere le distanze dopo le rivelazioni del XX Congresso del Pcus. Dal 1952, il primogenito di Luigi Longo e Teresa Noce, Gino, lavorava come interprete al Cremlino, per le traduzioni simultanee. Le sue memorie ci svelano ora il lato nascosto della «fortezza del potere» del Cremlino, la Città Proibita di Mosca. A quel consesso del 1957, intervenne anche Mao Tse Tung. Il quale, però, a differenza di tutti gli altri leader comunisti internazionali, tradotti in russo e nelle altre lingue dallo staff predisposto dal Cremlino, pensò bene di portarsi da Pechino il proprio interprete di fiducia, che forse ne era anche il guardaspalle.
Sta di fatto che tale scelta spiazzò i sovietici, i quali non sapevano bene come comportarsi. Se avessero deciso di «doppiare» in cuffia il traduttore del Grande Timoniere, sarebbe successo un pandemonio; quindi, meglio soprassedere, preparandosi al peggio.
Cosa che, puntualmente, si verificò. Perché, appena Mao aprì bocca - il suo discorso sarebbe durato quasi due ore -, il pool degli interpreti moscoviti si mise le mani nei capelli. Ricorda Gino Longo: «Non è solo il fatto che il russo dell'interprete cinese fosse di bassa lega: no, è che non sapeva tradurre. Saltava frasi intere e le sostituiva con altre di sua fatta, troncava i periodi a metà, confondeva i vocaboli; i nostri “cinesi” si tenevano la testa tra le mani. Una sfilza di spropositi inanellati con bella sicumera l'uno dopo l'altro».
Ma non era tutto. Perché Mao amava condire il suo eloquio inframmezzandolo con termini scurrili tratti dalla vulgata popolare: «Il discorso era farcito di parolacce: fosse l'oratore o il traduttore, o più semplicemente un vezzo cinese, fatto sta che la merda, i culi, le palle, le chiappe, le tette, troie e cagne, cazzi e fregne si sprecavano. Non v'era periodo in cui non apparisse almeno un'espressione da trivio. E noi a ritradurre!».
In parole povere, un vero disastro, come ammette oggi Longo: «Una cosa posso dire con certezza: di quel discorso di Mao, nessuno dei presenti, salvo evidentemente i cinesi, capì un bel niente. Naturalmente, alla fine tutti applaudirono educatamente, ma cosa avesse detto veramente Mao, e su che cosa pensasse di aver trovato l'accordo dei presenti - avevano applaudito, nessuno aveva protestato, né replicato - lo sapevano soltanto i cinesi. Nessuno allora diede importanza alla cosa, i discorsi sono discorsi, si sa. Ma non è escluso che la faccenda abbia avuto una sua importanza, nell'invelenire le successive polemiche e diatribe russo-cinesi».
A margine della seconda Conferenza internazionale dei partiti comunisti, che si tenne sempre a Mosca, nel novembre del 1960, Gino Longo ebbe un incontro singolare con il leader vietnamita, Ho Chi Minh. Longo padre, che guidava la delegazione del Pci ai lavori, una sera non se la sentì di unirsi a tutta quanta la nomenclatura, per assistere a uno spettacolo teatrale in scena alla Sala Ciajkovskij. Così cedette i suoi due biglietti al figlio, che vi andò accompagnato dalla moglie russa, Ljudmila. Quando i Longo videro entrare nella sala buia, a spettacolo iniziato, la barbetta di Ho Chi Minh, fecero il beau geste di offrirgli i loro posti. Ma il rivoluzionario asiatico si schermì, rifiutando con un sorriso affabile. «Nell'intervallo chiese di noi: ci presentammo. Disse che era onorato di conoscere il figlio di tanto padre, ma certo era ancor più lieto - aggiunse con un lampo di malizia - di poter conoscere quella bella figliola che mi portavo dietro, che probabilmente avevo sposato per non farmela scappare (era vero!). Permettevo che le facesse un po' la corte? Appena un po', per non perdere l'abitudine, perché ormai era un uomo vecchio, troppo vecchio. E, galante, s'inclinò in un compito baciamano. La conversazione, iniziata in francese, si colorì di frasi e mezze frasi in russo, stentato ma comprensibile. Nonostante la difficoltà, poiché mi toccava spesso intervenire per tradurre, fu un fuoco d'artificio. Più volte schizzò fuori dal palco, da solo, in anticamera o in corridoio, lasciando esterrefatto l'accompagnatore del Comitato centrale che non sapeva più a quale santo votarsi; tornava con un fiore, una bibita, dei cioccolatini. E giù risolini, racconti, aneddoti, nuove domande a volte indiscrete, repliche. Era lui a condurre il gioco spensierato, e lo faceva con rara maestria». Insomma, il condottiero dei guerrieri vietcong, lo zio Ho, tra i fulgori di un teatro moscovita, si rivelava un quasi perfetto gentiluomo occidentale: un «cavaliere d'altri tempi».
Il primogenito di Luigi Longo ci restituisce la magnificenza del Cremlino, con alcuni flashback sugli ambienti allestiti in occasione del XIX Congresso del Pcus dell'ottobre 1952, l'ultimo dell'era Stalin. Dapprima, le sontuose toilettes del palazzo: «Cabine enormi di mogano massiccio, dalle porte pesanti, maniglie e borchie dorate, lavabo e tazza di porcellana inglese, rubinetterie anch'esse dorate, un grande specchio di cristallo con mensola di marmo, e dulcis in fundo, sedile e coprisedile del water, lucidissimi, anch'essi in mogano spesso due centimetri, con perni e cardini dorati!».
Poi il buffet a disposizione dei congressisti: «Tovaglie e tovaglioli inamidati di lino di Fiandra, posate provenienti dai servizi del Cremlino, cibi scelti e raffinati; e prezzi adeguati, cioè tutt'altro che modesti. Ma i delegati ricevevano, dalle casse del partito, durante il congresso, una forte somma di denaro per le loro spese. Ricordo il tè, profumatissimo, i biscotti appena sfornati che sapevano di burro, la ricotta dolce alla vaniglia con uvetta e canditi: tutto eccelso».
Gino Longo ebbe modo di conoscere, da vicino, i lussi e i privilegi riservati alla casta, in occasione delle vacanze estive che suo padre, segretario del Pci dal 1964 al '72, trascorse in Unione Sovietica: ospite gradito - e interamente spesato - del Pcus. Nella dacia messa a disposizione del visitatore straniero, anche due volte al giorno «arrivavano in automobile cartoni con i rifornimenti, portati su dall'autista: viveri, vettovaglie, leccornie, bevande, vini ed alcolici, sigarette». Il tutto, naturalmente, sempre a carico del partito russo.
Fin qui, in fondo, nulla di speciale, sennonché quegli stessi comfort erano negati al compagno Ivan, il russo medio. Ma appariva già un po' più strana, osserva Longo, la circostanza «che a ogni ospite straniero venisse all'arrivo consegnata, con molta discrezione, una grossa busta con del denaro.

E si trattava di una somma non indifferente: prima tre, poi cinquemila rubli, almeno per quel che riguarda mio padre (credo esistesse una specie di tariffario), cioè due o tre volte un buon stipendio mensile, per pochi giorni di permanenza già spesati di tutto».
(8.Continua)

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