L'amore, che crudeltà Tutte le verità (e le bugie) del casanova Cohen

L'amore, che crudeltà Tutte le verità (e le bugie) del casanova Cohen

Q ualcuno non l'ha più seguito, dopo le prime ballad anni '70, e se lo ricorda così, canadese, perciò anche solo per nascita snobbisticamente fuori dal mainstream Usa, melanconico e monocorde e ispirato alla musica da Highway 61 Revisited di Bob Dylan (o almeno così diceva all'inizio, anche se poi confessò: «A un certo punto mi sono reso conto che non arrivavo a pagare le bollette. Non avevo voglia di insegnare. Non era il mio campo. Ero troppo dissoluto, dovevo stare sveglio fino a notte tarda, avevo bisogno di muovermi troppo in fretta. Ho preso un'altra strada, ma non ho mai avuto una strategia, faccio le cose così come vengono») e soprattutto giovane. Qualcuno lo ha davvero conosciuto solo dopo le svolte commerciali, come l'ineccepibile album The Future del 1992, in cui lancia l'ultimo ruggito mondano prima di ritirarsi per oltre cinque anni nel Centro Zen di Mount Baldy, California, al seguito del suo maestro Kyozan Joshu Sasaki ovvero «Roshi». Scelta per la quale qualcuno lo accomuna ad altre star come Yusuf Islam già Cat Stevens, convertite e scomparse dalla scena. Ma lui ha sempre specificato, ad esempio rispondendo una volta ad Allen Ginsberg, che mica voleva cambiare religione: «Nella tradizione Zen che pratico non c'è affermazione di deità. Teologicamente non c'è sfida all'ebraismo. E poi non cerco una nuova religione. Sono felice con quella vecchia».
Tutti questi qualcuno, adesso, a ritrovarsi fra le mani un libro beckettianamente complicato come Morte di un casanova (pagg. 537, euro 16, traduzione di Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni, testo inglese a fronte), inedita raccolta di poesie, prose poetiche e pagine di diario uscita in questi giorni, che faccia farebbero? Tra poco più di un mese Leonard Cohen compirà 78 anni: anche tra chi lo conosce bene, è difficile trovare chi lo definirebbe romanziere e poeta, piuttosto che folk singer. Eppure è proprio dalla matrice letteraria che nasce il Cohen cantautore ed è a quella che bisogna tornare per spiegarsi, ammesso che sia possibile, paradossi, energia provocatoria, culto per l'inestricabilità micidiale di carne e spirito.
Morte di un casanova, per fare soltanto un esempio, sarebbe folgorante anche se uscisse oggi in forma anonima. Pubblicato la prima volta nel 1978, ha una struttura - ammesso che di struttura si possa parlare - che, come Cohen stesso dice a proposito di altro - o forse no - in una delle pagine del libro «anticipa di qualche anno la letteratura» e «fa infuriare» (lo leggessero, certi contemporanei sperimentalisti ombelicali da scuola di scrittura, per scoprire, come sempre si deve scoprire per rispetto della pagina scritta, che tutto è stato già scritto). Perché ad ogni paragrafo, che appare tanto affascinante quanto oscuro, su temi tanto umani quanto inafferrabili, come sesso, amore, consolazione e maledizione della parola, fede, rinuncia e crudeltà, ne segue spesso un altro, sugli stessi temi guardati a testa in giù da un dispettoso lettore del paragrafo precedente, che fa le pulci all'autore con l'autorità che gli è data dall'esserne il nemico e l'alterego. E vien voglia di appuntarsi a exergo una citazione e il suo opposto, tanto sembrano entrambe magistralmente credibili.
Non è la prima raccolta inedita di Cohen che minimum fax si è occupato di portare in Italia, anzi, è il quinto volume di una serie tutta seguita da De Cataldo. Ma «è sicuramente il più ironico e autoflagellante dei suoi libri, a volte caotico, a volte irresistibile», ci ha confessato appunto il suo traduttore d'eccezione Giancarlo De Cataldo, uno che Cohen lo segue da sempre e per sempre. Che gli ha dedicato ore e ore di lavoro esegetico e che ha scritto la più breve e insieme più completa biografia dell'autore di capolavori come Suzanne, I'm your man, Hallelujah e Famous Blue Raincoat, tanto per tornare alle origini, di cui riportiamo qualche frase illuminante: «Ha mollato l'azienda di famiglia (ramo tessile) per farsi poeta. Ha studiato la cabala e il Talmud ed esplorato il sesso adolescente nel lungo inverno canadese. È partito per Cuba entusiasta di Fidel e ne è stato cacciato con ignominia per aver fatto comunella con una congrega di santi bevitori e donnine di facili costumi quanto mai invisa al moralismo di regime. È stato “Capitan Mandrax”, il bipede semovente più fatto del sistema rock, e ha conteso a Ernst Jünger e William Burroughs il discutibile primato di tossico più longevo del XX secolo».
Ma dicevamo della matrice letteraria. Perché fu così che Cohen cominciò, con una raccolta di poesie (a undici anni fu fulminato da Garcia Lorca, tanto da dare alla sua figlia poi fotografa il nome del poeta): Let Us Compare Mythologies, si chiamava, e nel 1956 vide un ragazzo vorace di Yeats, Whitman, Henry Miller e soprattutto Irving Layton dare alle stampe gli scritti compilati tra i quindici e i vent'anni. Sapeva che «poeta» significava, in quegli anni, «finocchio che insegue farfalle» ma quell'esordio lo introdusse tra i beatnik del Greenwich Village, cioè Ginsberg, e tutti gli altri.

Quando la poesia non gli bastò più, scrisse due romanzi, e di successo: Il gioco preferito (Fazi) e Beautiful Losers (Fandango). Quando i romanzi non gli bastarono più, fu uno dei pochi a restarci davvero su un'isoletta greca, per sette anni. E quando i soldi non gli bastarono più, cominciò con la musica: era il 1967. Il resto è canzone.

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