S ono secoli che si parla di «morte dell'arte». Sembrava che in poesia dopo Pascoli, Ungaretti e Montale, vi fosse il deserto, invece sono arrivati Luzi, Caproni, Betocchi; sembrava che in pittura, dopo De Chirico, Morandi, Carrà, cascasse il diluvio, eppure vi è stata una fioritura inusitata di artisti, Fontana, Burri, Vedova, Schifano; in scultura, dopo Giacometti, vi doveva essere il nulla, eppure sono giunti Manzù, Pomodoro, Pistoletto. Dopo che Hegel, nelle sue lezioni berlinesi dal 1817 al 1829, parlò dell'arte come ormai «cosa del passato» che non ha più una funzione, sono venuti il cinema con i suoi Chaplin, la fotografia con i suoi Doisneau, il design e le arti decorative con i suoi Tiffany. Dunque, niente finora ha fermato questo «creare interrogando» che è proprio del gesto artistico.
A mettere in crisi però questa considerazione che appare inconfutabile, ci pensa il docente di estetica al San Raffaele di Milano, Francesco Valagussa, nel suo ultimo libro L'età della morte dell'arte (Il Mulino, pagg. 182, euro 18). Lo studioso sostiene infatti che da millenni l'Europa conviva con la «morte dell'arte». La cultura europea si è formata e continua a formarsi proprio in questa faglia, in questo crinale tra il pericolo dell'arte di perire (ovvero di essere del tutto irrilevante) e l'urgenza di resistere (ovvero di essere capace del «gesto sovversivo», inaudito e nuovo, che rigenera l'arte e la ripone al centro delle esigenze umane). L'incombere della sua irrilevanza crea la combustione della sua rinascita.
Oggi siamo ad un bivio decisivo e Valagussa concentra qui il nucleo del libro: la tecnica può spegnere l'operare artistico. La nostra epoca «potrebbe coincidere con l'età non tanto dell'assenza di senso, quanto dell'assenza di ogni domanda di senso, di esigenza di senso». La tecnica può far morire l'arte perché le toglie il pubblico, cioè gli individui non più desiderosi d'interrogare l'esistenza a cui l'arte ha sempre teso.
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