È morta ieri a Roma, nella sua abitazione, la scienziata Rita Levi Montalcini. Aveva 103 anni, essendo nata a Torino il 22 aprile 1909. Vinse il premio Nobel per la Medicina nel 1986. Nel 2001 fu nominata senatore a vita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Innumerevoli gli attestati di stima da tutto il mondo
La sua eleganza era essenziale e senza sfarzi. Il portamento, la capigliatura bianca, i modi cortesi: e sul volto un sorriso soave. Sembrava una signora d'altri tempi («sono cresciuta in una famiglia dai principi vittoriani», ricordava). Ma era una ribelle e a proprio agio nella modernità. Rita Levi Montalcini, Nobel per la Medicina nel 1986, si è spenta ieri all'età di 103 anni. Da un po' gli occhi l'avevano tradita, ma il cervello continuava a funzionare benissimo. «Credo che sostanzialmente - diceva - sia rimasto lo stesso di quando ero ventenne. È un organo magnifico e se lo coltivi funziona. L'importante è non lasciarlo andare, non metterlo a riposo, perché si indebolisce». Nel 2001 lasciò allibita una platea di sindacalisti sostenendo che «la pensione è la fine della vita e per questo va abolita». Loro pensavano alle tutele sociali e alla concertazione, lei ai talenti che, abbandonata l'attività, sprofondano.
Rita Levi Montalcini in pensione non è mai andata. Fino all'ultimo ha continuato le ricerche scientifiche, ha accettato di incontrare gli studenti, spronandoli ad affrontare la vita con «totale disinteresse per la propria persona e la massima attenzione verso gli altri e verso il mondo». Era persuasa che Internet, la globalizzazione e le nuove tecnologie rappresentassero un'opportunità per i ragazzi; perché quel che più conta, ciò che dà felicità, è la dedizione al proprio mestiere, la capacità di affrontare le difficoltà senza paura. Come ha fatto lei.
Era nata nel 1909 a Torino, in una famiglia di origine ebraica ma non praticante. Buona borghesia sabauda: patria, principî, dovere. Nell'autobiografia L'elogio dell'imperfezione (Garzanti) ricorda che da bambina era timida e insicura, in soggezione davanti a un padre severo che la faceva sentire «come il brutto anatroccolo di fronte a due fratelli radiosi, Gino e Paola». Nessuno poteva immaginare che quella bambina così fragile potesse diventare una delle più grandi scienziate del '900. Fu Paola a rincuorarla, a far sbocciare la sua indole, infondendole sicurezza. E a lei, pittrice di talento scomparsa ne1 2000, Rita è rimasta sempre legatissima.
Adolescente, il suo destino sembrava segnato. Il padre iscrisse le due gemelle alla scuola femminile, che precludeva l'accesso all'università. Ne soffrì molto, ma non osò contestare, fino a quando la sua amata tata Giovanna si ammalò di tumore. Lo choc le diede il coraggio di ribellarsi al padre. Gli disse: «Voglio iscrivermi a Medicina per curare Giovanna». E lui, per la prima volta, chinò la testa. La tata morì poco dopo, ma lei non cambiò idea. Aveva vent'anni e da tre aveva interrotto gli studi. Bisognava ricominciare, recuperare il tempo perduto. Preparò la maturità da privatista. Nel '30 si iscrisse all'Università di Torino, laureandosi nel '36. Suo maestro era l'istologo Giuseppe Levi, di cui divenne assistente; ma nel '38 entrarono in vigore le leggi razziali e nel '39 Rita dovette scappare a Bruxelles, dove trovò un posto da ricercatrice.
Il sollievo durò poco. Hitler invase la Polonia e puntò sul Belgio. Rita tornò in Italia, nell'Astigiano, con microscopi, bisturi e provette al seguito. Il fratello le installò un laboratorio artigianale. «Andavo da una fattoria all'altra a chiedere uova per i bambini - ricorda nell'autobiografia - le chiedevo gallate perché, dicevo ai contadini, erano più nutrienti». In realtà l'uovo veniva usato per scopi scientifici. «Quando aveva cinque giorni toglievo l'embrione e lo esaminavo al microscopio». Era l'inizio delle ricerche che l'avrebbero resa famosa nel mondo.
Erano anni di angoscia. Nel '43 nuova fuga a Firenze, dove visse clandestinamente fino al '45. Poi nel '46 il ritorno a Torino, a fianco di Giuseppe Levi. Una mattina di primavera Rita ricevette una lettera del professor Viktor Hamburger, della Washington University di St. Louis, che aveva letto un suo articolo su una rivista belga di biologia. Incuriosito dagli esperimenti sugli embrioni d'uovo, simili a quelli che svolgeva lui, la invitava per un semestre negli Usa. Così nel settembre '47 si imbarcò a Genova, assieme a un altro giovane ricercatore, di cui divenne grande amica: Renato Dulbecco.
Rimase in America trent'anni. Nel '51 osservò per la prima volta l'effetto esercitato dal trapianto di un sarcoma di topo sul sistema nervoso simpatico dell'embrione di un pulcino. E capì che, contrariamente a quanto ritenuto fino ad allora, il sistema non era statico e rigidamente programmato dai geni. Aveva individuato l'Ngf, la proteina che stimola la crescita delle cellule nervose. «Mio figlio», lo definiva. Lei che mai si era sposata e che non provava disagio ad ammettere «di non aver mai avuto l'istinto materno» trovava nella scoperta la sublimazione della propria esistenza: il Nobel nell'86, assieme all'americano Stanley Cohen; le nomine nelle più prestigiose accademie internazionali; nel 2001 senatrice a vita.
Gli ultimi anni, dopo la fondazione, nel 2005, dell'EBRI (European Brain Research Institute), li ha trascorsi a Roma, devolvendo i suoi averi alla Fondazione che porta il suo nome e aiuta le ragazze africane ad assumere ruoli di primo piano nei propri Paesi. Non aveva dubbi: il futuro è delle donne.
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