Cultura e Spettacoli

La lezione Usa ai bamboccioni che aspettano il posto fisso

Lo speechwriter di Barack Obama vuole lasciare. A soli 32 anni

La lezione Usa ai bamboccioni che aspettano il posto fisso

C’è un ragazzo che cam­mina controvento: Jon Favreau lascia uno dei lavori più belli del mon­do a 32 anni. Aspettate prima di chiedere: «E chi è?». Perché qui non contano i nomi, ma la sto­ria. Favreau è lo speechwriter di Barack Obama, è l’uomo dei discorsi, è la carta, la penna, le parole, del presidente degli Sta­ti Uniti. Favreau è uno dei tren­tenni meglio messi del pianeta: vive al centro del centro del mondo. E per certi versi, di quel centro ne è a sua volta il centro. Eppure vuole lasciare.

Scriverà il discorso di insedia­mento il 20 gennaio e forse quel­lo sullo stato dell’Unione. Poi stop. Così racconta il Washin­gton Post .

È una storia che non ci tocca, ma ci tocca. È il termometro di una generazione che non è per niente il blocco monolitico che vogliono raccontare. Favreau lascia perché dice che quattro anni in un posto sono sufficien­ti e quando non sai più che cosa dare devi prendere il coraggio di dire: «Io vado, grazie». È il bamboccione al contrario o se volete l’opposto dei choosy del­la ministro Elsa Fornero: schiz­zinoso neppure un po’. Perché se lasci il posto di capo degli speechwriter della Casa Bian­ca sa­i che il 99 per cento dei po­sti che puoi trovare sarà comun­que non all’altezza. Allora perché lo fa? La domanda a questa risposta è il cuore della storia, è il dettaglio che la tira fuori dalla West Wing della Casa Bianca e la rende universale: Favreau crede in se stesso, nel mercato e nel futuro. È la perso­nificazione del rimettersi in gioco.

Sarebbe stato facile e comodo aspettare la fine del secondo mandato presidenzia­le, quando sarebbe stato obbligato a molla­re: tra quattro anni Jon avrebbe trovato praticamente qualunque posto, quasi per transumanza. Diciamolo: la gran parte dei suoi coetanei, e no, avrebbe fatto così. Lui, invece, è la faccia di chi non lascia che sia il tempo a decidere. Favreau è la scom­messa sulle proprie capacità: non ho più niente da dare qui, cercherò altrove. Lo fa nel peggior momento possibile: la disoc­cupazione alta, gli stipendi che non cresco­no, i tagli alle consulenze (negli Usa). È il controvento verso il quale cammina trasci­nando altri come lui lui. La sua storia c’entra molto con lo spirito americano e però c’entra pure con noi. Molti, troppi, nostri trentenni stanno qui ad aspettare quel posto che sognano e in at­tesa­di quello sono disponibili a fare beata­mente nulla. Lui, invece, il lavoro dei sogni ce l’ha e lo lascia. No, non è lui che prende a calci se stesso. È il contrario: lasciare il po­sto di speechwriter della Casa Bianca è una scelta che contempla in se stessa l’ipo­tesi del fallimento futuro. E comunque di un ridimensionamento. È un rischio, quin­di. È coraggio. È l’approccio culturale che cambia la vita.Perché solo se accetti l’idea di non potercela fare, allora hai anche qualche possibilità di farcela. Jon fu preso che aveva 25 anni, fu preso perché ebbe la sfacciataggine da stagista della campagna di John Kerry nel 2004 di dire a un candida­to­senatore che il suo discorso aveva un re­fuso. Quel candidato era Obama e quello speech l’avrebbe rivelato al mondo.Favre­au non ha studiato ad Harvard o a Yale. Ha fatto un’università normale. Come dire: non è vero che serve solo il curriculum per avere una chance.

Mollare un posto da privilegiato può es­sere una sconfitta o una vittoria. È, comun­que, un’idea forte. Una follia ponderata. È la preparazione a un’altra vita. Qualche giorno fa ilFinancial Times scriveva che molti tra i broker più quotati di Wall Street, quasi tutti della generazione trenta-qua­ranta, si sono rimessi a studiare. Escono dagli uffici milionari e frequentano corsi pomeridiani nelle università per essere pronti nel caso perdessero il ricco incarico che hanno oggi. Da noi ci si rivolge al sinda­cato, si invoca la cassa integrazione, si ma­nifesta. Si può fare, certo. Oppure ci si può organizzare per il futuro.

In America l’idea base è semplicissima: il fallimento non è essere licenziati, ma non sapere che come fare a riprendersi un lavoro.

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