La lezione di V.S Naipaul , genio senza (finte) radici

Ha rifiutato le etichette postcoloniali e ha fatto dell'ambizione bruciante una forza letteraria

La lezione di V.S Naipaul , genio senza (finte) radici
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Ad esempio, la didascalia «letteratura postcoloniale» potete rimettervela nel gozzo. Perfino del colonialismo, in fondo, gl'importava per meri, doverosi effetti estetici. Anche la letteratura inglese gl'interessava poco. Davanti all'happy hour di cariatidi svedesi, pronunciando il discorso per il Premio Nobel, 2001, V. S. Naipaul cita Marcel Proust, mica Shakespeare, per ribadire che «tutto ciò che ha valore per me, è nei miei libri», che la biografia di uno scrittore è parziale e fuorviante, che «i dettagli della vita, le stranezze, le amicizie possono essere spiattellate, ma il mistero della scrittura rimarrà. Nessuna eloquente documentazione può svelarlo. La biografia di uno scrittore o l'autobiografia sarà sempre definita dall'incompletezza».

Salvo poi, parlare narcisisticamente di sé. V. S. Naipaul scriveva in inglese, ma avrebbe potuto essere Stendhal, e per tutta la vita fu più flâneur che impegnato, più esteta che moralista del mondo che cambia. La parola adatta per definire la vita di Naipaul è ambizione. Era corroso dall'ambizione e questo, di solito, è il solo dei valori forti per un grande scrittore.

Nato a Trinidad nel 1932 il 17 agosto avrebbe compiuto ottantasei anni da indiani immigrati laggiù nel tardo Ottocento, cresciuto all'ombra del padre, Seepersad, reporter del Trinidad Guardian e romanziere in potenza, finito il ciclo di studi ottiene una borsa per andare a Oxford, UK. Non attende di meglio. Oxford gli fa schifo. «Odiavo Oxford. Odio tutti quei gradi, tutte quelle idee di università. Ero lontano da tutti. Ero molto più intelligente di quelli che frequentavano il mio corso. Non mi vanto: il tempo dimostra che ho ragione», ha detto Naipaul, vent'anni fa, al Paris Review. A Oxford rischia di farsi fuori eccesso di narcisismo? ma resiste («Mi sarei ucciso. Un mio amico lo ha fatto. Eccesso di stress. Era un ragazzo di razza mista. Adorabile. Luminoso. Uno spreco»).


L'Inghilterra è la chiave di volta per le ambizioni di Naipaul: «Avrei potuto diventare dottore o ingegnere, volevo soltanto imparare l'inglese a Oxford non perché m'interessasse l'inglese o Oxford, ma perché quella era una via di fuga da Trinidad... Mi sentivo oppresso dalla meschinità della vita coloniale... dalle intense dispute in cui le persone venivano giudicate e condannate in base a questioni morali. Non era una società generosa il mondo coloniale, il mondo indù».

Nato ai Caraibi, Sir per Sua Maestà d'Albione, Naipaul ha scritto degli indiani in Africa e dei musulmani in Indonesia, ha scritto dell'India e del Congo e aveva l'amante in Argentina: è stato l'emblema dello sradicato, che cerca le radici per intagliarle in voluttuose fiction e distruggerle. Il successo lo visitò presto, con Il massaggiatore mistico, con cui, a 25 anni, ottiene il primo di molti premi, il «John Llewellyn Rhys Prize», assegnato agli scrittori del Commonwealth di maggior talento. Lo sguardo fazioso, sinuosamente cinico, da cantastorie con la lingua di cobra, lo ha reso un saggista geniale: Naipaul sarò ricordato per i reportage (Un'area di tenebra, Fedeli a oltranza), per gli studi intransigenti, polifonici e narrativi (La perdita dell'Eldorado). Riguardo ai romanzi, per molti il libro più bello di Naipaul è Una casa per Mr. Biswas, che nel 1961 lo consacra come grande scrittore in lingua inglese; io suggerirei di ristampare Guerrillas, uscito da Mondadori nel 1991 e lasciato lì, ma l'opera ineccepibile è A Bend in the River, del 1979, uscito in Italia come Alla curva del fiume (Rizzoli poi Mondadori) e Sull'ansa del fiume (Adelphi). La storia di Selim, giovane indiano infatuato dal sogno di conquistare il cuore di tenebra dell'Africa, è quella di Naipaul, fin dall'incipit («Il mondo è quello che è, e non c'è posto per chi si lascia vincere dall'inerzia e non ha ambizioni»), pare scritta da un Joseph Conrad (altro espatriato e sradicato pure lui) senza fregole retoriche, da un Kurtz che non si vergogni di dettagliare anatomicamente l'orrore.

«Bisogna guardare dentro di noi, non cercare un nemico fuori di noi. Dobbiamo esaminare le nostre debolezze, capire chi siamo»: questo era le mot juste di Naipaul. Dopo il delirio delle piogge, «oltre la curva del fiume», Selim osserva delle «masse di giacinti acquatici, grandi scure isole galleggianti sull'oscuro fiume...

Pareva che la pioggia e il fiume strappassero al cuore del continente un pezzo del suo bosco sacro per farlo scorrere giù fino all'oceano». Eccolo. Un enorme giacinto, «il grande fiore color lilla», su un fiume rapinoso, di fango. Eccolo. Naipaul.

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