"Il libro ha un grande futuro se gli editori lavorano bene"

Gian Arturo Ferrari, guru del settore: "La crisi non è irreversibile. Diventerà ancora più importante il ruolo di chi media tra gli autori e il pubblico"

"Il libro ha un grande futuro se gli editori lavorano bene"

nostro inviato a Torino

Già editor, già docente universitario, già direttore editoriale della divisione libri Mondadori, già Presidente del Centro per il Libro, già (in predicato) di diventare, chissà, prossimo presidente del Salone di Torino, Gian Arturo Ferrari per la prima volta in una vita passata a occuparsi di libri degli altri, si trova, libero da impegni, a scriverne uno proprio. Un libro casualmente sul Libro (Bollati Boringhieri), come s'intitola, semplicemente, il saggio presentato ieri pomeriggio in sottofinale di Salone: una riflessione - dal manoscritto alla stampa al digitale - sulla forma di diffusione della cultura più potente, semplice e perfetta che la civiltà umana abbia inventato.

Una vita fra i libri, e ora un libro sul libro. Cos'è? Un debito di riconoscenza verso chi ti ha dato tanto?
«No. È solo ciò che deve essere un libro: l'idea di un editore, che sceglie di fare scrivere un autore, su qualcosa che interessa al pubblico. Questa è la buona editoria. E questo è avvenuto. Stefano Mauri mi ha chiesto di scrivere non “qualcosa”, ma una cosa precisa, per una collana specifica, “I sampietrini”, dedicata ad alcune parole-chiave della contemporaneità, in un momento in cui si parla molto del destino del libro».

Perché è buona editoria? Quale non lo è?
«È buona editoria quella in cui l'editore fa al meglio l'intermediario tra scrittura e fantasia di un autore da una parte e interesse e esigenze del pubblico dall'altra. In un momento in cui viene negata da più parti l'idea di un ruolo di mediazione tra chi scrive e chi legge, è invece essenziale il lavoro di una persona che sappia scegliere e faccia filtro. Più una società diventa complessa, più è necessaria la funzione di intermediazione».

Non crede al self publishing?
«Credo che il sogno di un rapporto libero e diretto tra autore e lettore sia irrealizzabile: senza fondamento e sbagliato».

Al Salone si è stradetto che il libro e la lettura, in Italia, non stanno per niente bene.
«Noi italiani tendiamo a dimenticare sia le glorie del passato lontano sia le miserie del passato vicino. Nel '400 non esisteva un altro luogo sulla terra in cui come in Italia ci fossero biblioteche aperte al pubblico. Si leggeva molto e i tassi di alfabetizzazione erano altissimi. Poi, per varie vicissitudini, a partire dalla Controriforma, la tendenza si è invertita, tanto che al momento dell'Unità di Italia, 150 anni fa, l'analfabetismo era a un tasso del 75%, sceso al 25% alle soglie della Seconda guerra mondiale. Oggi, di fatto, è a zero o quasi. Quindi abbiamo fatto passi da gigante. Le cose non vanno mai viste in una prospettiva troppo stretta».

Neanche con eccesso di ottimismo. I numeri dicono che più della metà degli italiani non compra nemmeno un libro all'anno.
«Vendite e consumi si sono ridotti anche per la crisi economica. Sono sicuro che si può ripartire».

Da dove?
«Dal basso, in tutti i sensi. Si parte dai più piccoli, con piccole cose. L'educazione alla lettura è una cosa complessa, è il portato di una intera cultura, non basta una iniziativa, non c'è la bacchetta magica. Leggere è di per sé una cosa difficile e faticosa. E tutti, per natura, rifuggono dalle cose difficili e faticose. Bisogna fare capire ai bambini che con il prezzo alto della fatica si acquista l'accesso ad altri mondi, a un altro livello della realtà».

È la scuola il problema?
«Macché scuola! Quella viene dopo, come vengono dopo le biblioteche pubbliche. No: la partita si gioca molto prima. I dati scientifici dicono che è nei primi due anni di vita che un bambino acquista il desiderio di farsi leggere e raccontare storie. La madre dà familiarità alla lettura. Poi, con gli anni, il bambino diventerà un lettore. Buono o cattivo, sofisticato o volgare, quello dipenderà dalla sua volontà».

Quanti libri hai?
«Non lo so. Tanti. Comunque troppi. Ora però per fortuna molti li compro in formato elettronico».

L'e-book. In Italia la quota di mercato è sotto il 3%. Meno dello share di «Masterpiece». L'e-book da noi non esiste.
«Anzi. È un dato di fatto. I libri si dividono in due categorie: nella prima stanno narrativa, saggistica e varia; nella seconda la scolastica, la formazione professionale, l'apprendimento. Bene: la seconda categoria, peraltro quella che genera profitti, è già tutta elettronica. Lì è il libro di carta che non esiste più. Il digitale ha già vinto».

E nella prima categoria?
«Beh, lì le cose vanno diversamente, ma è inevitabile che si diffonderà anche lì. Fosse solo per la semplicissima ragione che costa meno. E nella storia della civiltà tutti i grandi cambiamenti nella natura del libro sono stati determinati da una diminuzione del prezzo. L'invenzione della stampa si è affermata perché offriva libri a prezzi più bassi: quando il libro era fatto di pergamena, un volume valeva come un gregge di pecore. E in Italia, l'ultimo significativo salto in avanti negli indici di lettura avviene quando nascono gli economici».

Tantissimi libri, a poco prezzo. Spesso però sono libri pessimi.
«Ma i libri sono sempre stati inutili, fragili, cattivi. Se non con poche eccezioni, la gente ha sempre letto cose mediocri, oggi come nel passato».

Il ministro Franceschini dice che la gente oggi legge ancora meno per colpa della tv.
«I dati dicono che la tv la guardano prevalentemente le persone dai 60 in su. Dovrebbe preoccuparsi di Internet».

E internet, fa bene al libro?
«Internet, in una società in cui scrivono tutti, offre una abbondanza di “testi” incredibile. E in questo mare magnum aumentano le possibilità di trovare qualcosa di buono. Anche i capolavori? Non lo so.

La domanda vera, però, è se in questa grande civiltà basata sulla scrittura, ben più che sull'immagine come si crede, il libro - inteso non come semplice testo, ma come forma mentale e spirituale, indipendentemente dal supporto, carta o digitale - continuerà a sopravvivere».

E la risposta qual è?
«Per me, sì. Ma sono di parte».

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