L'isola del Diavolo deve diventare un paradiso terrestre

La colonia penale di Pianosa era il cuore pulsante e operoso del paese. Smantellata nel '97 dal governo Prodi, è il modello da cui ripartire

L'isola del Diavolo deve diventare un paradiso terrestre

Questa è una storia strana. È la storia di un mezzo paradiso terrestre che coincideva con un carcere. Sto parlando di Pianosa, dove la vita in carcere doveva essere dura. Sto parlando di un carcere dove, nell'arco di un secolo e mezzo, sono stati uccisi un paio di direttori, alcuni detenuti e alcune guardie, qualcuno ha tentato la fuga, ci furono aspre rivolte e sanguinose repressioni. Non sto parlando di un posto per anime belle, puffi e fatine. Ma Pianosa era quel che un carcere deve diventare. Una colonia penale agricola, dove i detenuti imparavano a coltivare la terra, allevare gli animali, fare i formaggi, il pane, cucinare. Un posto di rieducazione e di reinserimento nella vita lavorativa, da cui molti detenuti non volevano più andar via, nemmeno a fine pena.
Erano mille i detenuti e cinquecento i loro vigilanti, fino alla metà degli anni Novanta, e gran parte di loro lavoravano e si nutrivano di quel che essi stessi coltivavano. Quando mandarono sull'isola i superdetenuti in rivolta nelle carceri speciali, gli stessi carcerati dell'isola avvisarono i nuovi arrivati: qui non vogliamo disordini, noi stiamo bene, ci coltiviamo e ci cuciniamo noi quel che vogliamo, facciamo perfino il bagno in un mare da favola, nella spiaggiona di San Giovanni, la nostra è una comunità ideale anche se composta da brutti ceffi, privati della libertà. Non fate scherzi sennò ci arrabbiamo. E così fu. Prima di chiuderlo ai tempi di Dalla Chiesa qualcuno ebbe la trovata infelice di far erigere, accanto a un magnifico, storico muro, un altro muro grigio e triste che aveva solo una funzione simbolica e scoraggiante, perché non cinge il carcere ma separava il mondo dei liberi dal mondo dei dannati. «Lasciate ogni speranza voi ch'entrate» ribadiva la scritta sul frontone del carcere, per tirar su il morale ai detenuti. E furono investiti 60 miliardi per ristrutturare qui la caserma Bombardi mentre si era già deciso di smantellare il carcere.
La colonia penale di Pianosa fu voluta a metà Ottocento dall'ultimo granduca di Toscana, Leopoldo II, poi accresciuta dall'Italia sabauda, da quella fascista (ci finirono anche i detenuti politici come Pertini) e da quella democristiana. Era un giardino operoso, con belle e confortevoli abitazioni, un sanatorio, una sontuosa cantina, la scuola e tante attività di lavoro e ricreazione. Il paese viveva intorno al carcere. Che fu smantellato nel 1997, sotto il governo Prodi, proprio mentre si parlava di sovraffollamento delle carceri, di scopo rieducativo della pena e della necessità di costruire nuove carceri... Tante storie di vita e passione fiorirono sull'isola. Alcune me le racconta Beppe che si sente in esilio dalla sua Pianosa. Altre le racconta Stanislao che arrivò da secondino a Pianosa, e un giorno sbarcò una ragazza con una valigia rosa che veniva a insegnare nell'isola dei carcerati e lui appena la vide da lontano disse, «sarà mia moglie». Così fu e lo è ancora, da quarant'anni. E dire che i genitori di lei si erano raccomandati: non innamorarti di un secondino. Me le raccontano i superstiti abitanti di Pianosa e le guardie penitenziarie.
Ho visitato il deserto dei tartari accompagnato dalla polizia penitenziaria che vigila su un carcere in rovina che non ha più, da sedici anni, carcerati. A differenza dell'opera di Buzzati, qui i tartari sono un ricordo nostalgico e non una vaga minaccia futura. C'è solo una ridottissima cooperativa di ex-detenuti che gestisce l'unica trattoria. La polizia penitenziaria ha i suoi fuoristrada, le sue motovedette, i suoi turni, in memoria del carcere. Stringeva il cuore vedere quelle botti vuote e quella grande cantina deserta, quel caseificio ormai privo di formaggi, quei campi una volta abitati da mucche e attraversati da asini, come illustra una mostra nell'ex ufficio postale, e ora ridotti a sterpaglia, rovine, muri scrostati. L'ingresso solenne, il bastione napoleonico in piazza d'armi, la piscina un tempo piena di pesci, l'orto e il frutteto, il panificio e la lavanderia, le stalle e la concimaia, il porcile e il pollaio, le officine e la cave di tufo, il pozzo a vento e la torretta vecchia; tutto in abbandono.
In più vedi scorci di mare incantevole, da sogno proibito, vietato al minimo contatto. Qui mi sono abbandonato a un doppio sguardo visionario, metà apocalittico, metà sorgivo. Girando per quelle rovine ho avuto l'impressione di aggirarmi nel nostro futuro, nel nostro Paese dopo la crisi economica, un Paese in disarmo, abbandonato alle ortiche, con le imprese un tempo fiorenti ridotte solo a muri scalfiti d'intonaco, scritte galleggianti nel vuoto, pareti diroccate, case disabitate, magazzini in rovina, ingressi sontuosi ridotti a spettrali archi nel vuoto... Mi sembrava una cartolina dall'Italia ventura, dopo la catastrofe a lungo annunziata. Al contempo però ho avuto un'altra visione di quel che potrebbe diventare: ma perché questo Paese imbecille che spende non poco per sorvegliare detenuti fantasmi e vigilare le rovine in modo che tutto degradi a norma di legge, perché - dicevo - questo Paese imbecille non investe pochi capitali e molti giovani per rianimare l'isola, rifare quella comunità e quella cooperativa, siano essi ex-detenuti o ragazzi in cerca di lavoro? Sarebbe un'impresa magnifica riportare alla luce questa atlantide dei detenuti, riportare questa fazenda autarchica al suo dinamico e fruttuoso splendore, ripristinare gli appartamenti, le strutture, le case, le stalle, i pozzi, la vita agreste, marittima, artigianale.
Quante Pianosa abbandonate ci sono in Italia che potrebbero essere rimesse in vita, dar lavoro a cooperative di giovani, attrarre un turismo selettivo, rilanciare l'agricoltura e la zootecnia, vivere in autonomia con i propri prodotti? E quanti istituti di pena, riportati nei loro siti d'origine, isole e non solo, potrebbero tornare a essere luoghi di rieducazione alla vita? Possibile che dobbiamo invidiare il progresso al tempo degli Asburgo, lo sviluppo al tempo dei Savoia, la passione fondativa al tempo del Duce, la manutenzione al tempo della Dc? Possibile che non ci siano più visionari che fondano, che ripristinano, che tentano l'impresa? A Pianosa ne ho incontrato alcuni, vittime della nostalgia canaglia, che qui è sentimento eco-compatibile. I benedettini ci provarono con l'agricoltura biologica, con la pia intenzione di ribattezzare l'Isola del Diavolo come Isola della Madonna.

Possibile che in Italia dobbiamo ridurci a rimpiangere pure i luoghi di pena d'una volta? Sarebbe un segnale di vita rianimare Pianosa e ridarle fertilità. Il futuro che prende la rincorsa dal passato, la gioia che dà frutti in un luogo di pena...

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