Cultura e Spettacoli

Le memorie dal carcere di Giuseppe Gulotta, "mostro" d'innocenza

Accusato ingiustamente dell'omicidio di due carabinieri, ha passato vent'anni in galera. E ora li racconta in un libro

Le memorie dal carcere di Giuseppe Gulotta, "mostro" d'innocenza

È una storia da brividi. Uno strano incrocio tra gli eventi narrati ne La colonna infame di Manzoni e il caso Dreyfus. Eppure non è accaduto nel Secolo di Ferro o nella Francia dell'Ottocento. È accaduta in Italia, in Sicilia, in pieno regime di democrazia. Ed è costata più di un ventennio di galera a un innocente, come ha stabilito una sentenza della Corte d'Appello di Reggio Calabria il 13 febbraio 2012. Ora Giuseppe Gulotta che a lungo ha dovuto convivere con l'infamia di essere considerato il mostro di Alcamo, ha deciso di raccontare (con Nicola Biondo) la propria storia in un libro prossimo all'uscita: Alkamar. La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere).

Ecco i fatti. Il 27 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, la stazione dei Carabinieri viene attaccata. Agli inquirenti la scena si presenta così: la porta della casermetta è stata abbattuta usando una fiamma ossidrica. Nelle loro brande giacciono, freddati, due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e l'appuntato Salvatore Falcetta. Sembra siano stati colti nel sonno, soltanto uno ha avuto un accenno di reazione. Da subito le indagini si rivelano complesse. L'attacco sembra un lavoro da professionisti, il fatto che i carabinieri siano colti nel sonno è poco spiegabile. Per non parlare del movente. Due le piste battute: quella mafiosa (l'anno prima erano stati uccisi l'assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Francesco Paolo Guarrasi, e il consigliere comunale Antonio Piscitello) e quella dell'attacco terroristico (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br).

Viene spedita sul posto in maniera piuttosto informale una squadra investigativa dei carabinieri comandata da Giuseppe Russo (colonnello dei carabinieri poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d'oro al valor civile). Poi finisce nelle mani degli inquirenti un certo Giuseppe Vesco. È un carrozziere della zona, monco di una mano, viene trovato in possesso di armi e oggetti che sembrerebbero provenire dalla Stazione di Alcamo. La pista sembra buona e gli uomini di Russo si fanno prendere la mano. Come rivelerà, troppi anni dopo, uno di loro, Renato Olino, usano le maniere forti, molto forti. Vesco per sfuggire al dolore fa i nomi di una serie di ragazzi di Alcamo tra cui Giuseppe Gulotta. Olino non è convinto, vorrebbe attendere i riscontri della scientifica, gli altri vogliono giustizia subito, portano in caserma quelli nominati da Vesco. Secondo Gulotta, all'epoca manovale diciottenne che aveva appena fatto il concorso per entrare in Finanza, anche a loro tocca la linea dura.

Ecco che cosa racconta nel libro: «Schiaffi, tre, quattro, a mano aperta... Mani coperte di guanti neri continuano a colpirmi... Il ferro freddo mi scortica la parte sinistra della faccia: è una pistola. Il clic del cane che si alza e si abbatte a vuoto». L'interrogatorio per cui non è stato fatto nessun verbale e a cui non presenzia l'avvocato dura diverse ore. Alla fine Gulotta cede: «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete». Nella testa di questo ragazzino terrorizzato ciò che conta è farli smettere. Non capisce che firmare una confessione può distruggergli la vita. Quando arriva al carcere di Trapani e finalmente incontra i magistrati prova a dire la sua verità: «“Lei conferma quello che ha detto a verbale?”. “Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tutta la notte”». Secondo Gulotta gli rispondono: «È impossibile che per le botte si confessi un omicidio». Gli fanno una visita medica, risultano delle contusioni, ma secondo i Carabinieri purtroppo è caduto...

E da questo punto in poi la storia giudiziaria di Gulotta oscilla fra la sua testimonianza iniziale, le prove labili, e la modalità in cui si sono svolti gli interrogatori. Anche perché Vesco, il testimone chiave che ha coinvolto gli altri, in carcere si suicida. Pur essendo monco riesce a impiccarsi a una grata altissima e, per non disturbare, si posiziona anche un fazzoletto in bocca. La prima sentenza della corte di Assise di Trapani assolve Gulotta per insufficienza di prove. Però è vaga sulle violenze. Per ciò che è avvenuto nella caserma di Alcamo si limita a un «critico giudizio» e parla di «maltrattamenti e irregolarità». Nel 1982 si passa alla Corte d'Appello di Palermo che ribalta la sentenza: Gulotta è condannato all'ergastolo. Si accumuleranno i processi, sino a che il 19 settembre 1990 la sentenza diventa esecutiva. Gulotta deve entrare in prigione, per lo Stato è un assassino. Per un attimo ha la tentazione di fuggire, poi rinuncia. Entra in carcere, affronta il calvario cercando di essere un detenuto modello, per uscire il prima possibile. Nel 2010 arriva la libertà vigilata.

Intanto qualcuno ha dei terribili rimorsi di coscienza. È l'ex brigadiere Renato Olino. Aveva già provato a raccontare di quegli interrogatori, soprattutto di quello di Vesco. Non trovò sponda istituzionale e nemmeno in certi giornalisti, che non vollero saperne delle sue verità. Poi però sul caso torna la televisione con la trasmissione Rai Blu notte - Misteri italiani, ricostruisce la storia anche se con alcune inesattezze e Olino via web si fa avanti per raccontare.

Così la magistratura di Trapani apre un'inchiesta e arriva anche il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d'Appello di Reggio Calabria ha chiesto il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscioglimento raggiunto in via definitiva il 13 febbraio 2012. Sulle cause di un'indagine condotta così male si indaga ancora. Giuseppe Gulotta, che ha chiesto allo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro, racconta di essere tornato sul luogo dove c'era la stazione dei carabinieri di Alcamo Mare. Ora li c'è un cippo per i due carabinieri morti. A loro nessuno ha ancora dato giustizia, a lui l'hanno data con 36 anni di ritardo.

Anni che non torneranno più.

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