Il mercato? Sì, grazie Le mosche bianche della sinistra liberale

Nel Pd c'è chi cerca (inutilmente) di aprire un dibattito culturale sullo statlismo. Ma non riesce a dire addio a Bobbio e Dossetti

Il mercato? Sì, grazie Le mosche bianche della sinistra liberale

Nel 1998 a Maglie, a vent'anni dalla morte, venne inaugurato il discusso monumento ad Aldo Moro con l'Unità sotto braccio. Monumento discusso, sì, ma profetico giacché dopo pochi anni un buon numero di lettori del Popolo e dell'Unità si sarebbero ritrovati nello stesso partito, il Pd, oggi guidato da un ex-Pci, Pierluigi Bersani e presieduto da un'ex Dc, Rosy Bindi.

Stupisce non poco che lo statista pugliese non venga nominato, neppure en passant, nel «Manifesto riformista», L'Italia dei democratici, pubblicato da Enrico Morando e da Giorgio Tonini per i tipi di Marsilio. Il democristiano di cui gli autori tessono le lodi - et pour cause! - è Alcide De Gasperi. «La stagione di più intensa crescita - scrivono - l'abbiamo conosciuta tra il 1950 e il 1973, quando il prodotto per abitante è aumentato in media del 5,3% all'anno. Anche in questo secondo caso è stata la proiezione verso l'economia mondo (la scelta “quasi folle” di De Gasperi ed Einaudi di totale apertura ai mercati internazionali), a favorire quello che è stato definito il miracolo italiano». E ancora, nel contrasto fra De Gasperi e i dossettiani, che aveva «al centro la relazione tra ispirazione cristiana e cultura liberale, con tutte le sue implicazioni di politica estera» e di politica economica e sociale, i due riformisti stanno dalla parte della concezione del rapporto fra Stato, mercato e società che ispirava l'azione di governo di De Gasperi non con la sinistra dossettiana, «assai più incline a una concezione forte dello stato e a una robusta diffidenza nei riguardi del mercato».

Si tratta di valutazioni storiche e culturali che si traducono in un'analisi impietosa dell'Italia contemporanea e del suo «ritardo», di cui vengono individuate due cause che un liberale (anche teocon) non potrebbe non sottoscrivere. «La prima ragione del ritardo italiano è l'insufficiente radicamento di una visione liberale del mercato». La seconda ragione «è stata ed è tuttora la pesantezza di apparati pubblici (mediamente) tanto costosi quanto qualitativamente scadenti». Il paradosso, che pesa su di noi come una maledizione, sta nel fatto che «l'intervento dello stato nell'economia - un enorme prelievo fiscale e un'ancora più grande spesa, entrambi giustificati dall'esigenza di correggere a favore dei più deboli gli eccessi di disuguaglianza provocati dal mercato - fa gravare il peso del suo debito proprio sulle spalle di quelli che, per le minori dotazioni della famiglia di nascita, cominciano la corsa della vita da posizioni di relativo svantaggio». Uno Stato che preleva tasse, tributi e contributi sempre più onerosi sulle famiglie e in cambio restituisce servizi e prestazioni quasi da Terzo Mondo va riformato con ferrea determinazione se non si vuole essere emarginati dalla globalizzazione.

La ricetta economica che M.&T. propongono risente non poco delle analisi pacate e controcorrente di Luca Ricolfi: «una drastica riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sull'impresa, finanziata (in larga misura) con il ricavato dalla lotta all'evasione fiscale e (per la parte minore, ma non del tutto marginale) con un maggior prelievo su patrimoni e rendite e sui consumi». (La patrimoniale dovrebbe applicarsi a quel 10% delle famiglie italiane che detiene il 46% dell'intera ricchezza netta privata). Ma non meno dirompenti sono, sul versante del sistema politico, le riforme proposte dal manifesto e, soprattutto, le analisi realistiche che le sostengono come la debolezza del premier che non può nominare e revocare i ministri né chiedere al presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere; la mancanza di una corsia parlamentare preferenziale per le proposte del governo; il bicameralismo perfetto e paralizzante, l'eccessivo numero dei parlamentari etc. Convinti dalle tesi di Alexander Hamilton a sostegno di un forte esecutivo, gli autori non si accontentano neppure del modello inglese. «Gli incombenti rischi di disgregazione del sistema politico italiano - fanno rilevare - sarebbero meglio contrastati se la (auto)riforma dei partiti e delle istituzioni della politica potesse saldamente ancorarsi alla figura di un presidente della Repubblica che, grazie all'elezione diretta con ballottaggio tra i primi due, è garanzia al tempo stesso della capacità di rappresentanza e di decisione del sistema politico».

Non sono solo queste le «provocazioni» di un manifesto destinato a far riflettere, a sinistra, quanti ancora esitano a mettere in soffitta sia la «riforma morale e intellettuale» degli Italiani del totalitario, malgré soi, Antonio Gramsci, sia la «nuova cristianità» di Giuseppe Dossetti. E tuttavia l'onore al merito che va reso a M.&T. non può far dimenticare che il loro discorso è tutto interno a un'area politica e culturale. Il «ritardo riformista», che deprecano, non può essere colmato con la zuppa liberalsocialista e buonista in cui far bollire alla rinfusa le verdure più diverse. Il rosario europeista, il richiamo alle autonomie locali, l'economia sociale di mercato e il principio di sussidiarietà, le speranze riposte nel Risorgimento arabo appartengono al dominio della retorica, non a quello della realtà effettuale. «La cultura liberale con l'idea di stato di diritto e di primato dell'individuo e della società sullo stato» si scontra oggi con la «proliferazione dei diritti», e teorici come Norberto Bobbio, che credevano si fosse tanto più liberali quanti più diritti si fosse disposti a riconoscere, hanno fatto il loro tempo.

Inoltre, in un libro così ambizioso non si trova neppure una pagina dedicata alla magistratura che rischia di attentare (e non solo in Italia) a quelli che un'acuta giurista come Anna Pintore chiama «i diritti della democrazia». (Forse si voleva rimuovere il ricordo dell'amato Veltroni, il quale preferì imbarcare Di Pietro piuttosto che i socialisti e i radicali).

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