Cultura e Spettacoli

Il mistero del Laocoonte. Ecco cosa nasconde

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto di Enigma Laocoonte (Mimesis edizioni)

Il mistero del Laocoonte

All’alba di mercoledì 14 gennaio dell’anno 1506 sui campi alle pendici dell’Esquilino doveva proprio aleggiare una leggera nebbia quando l’ufficiale della Camera Apostolica Felice de Fredis, scavando nella sua vigna dalle parti delle Sette Sale, poco distante delle sepolte terme di Traiano, ritrovò i resti di un antico gruppo marmoreo. La notizia raggiunse subito papa Giulio II. Il burbero e risoluto pontefice richiese attraverso un palafreniere pontificio l’immediato intervento di Giuliano da Sangallo, suo architetto. Quest’ultimo si recò subito sul luogo del ritrovamento, dopo aver messo in groppa al suo cavallo anche il figlio Francesco, accompagnato da Michelangelo Buonarroti che, guarda caso, si trovava a Roma in quei giorni. La memoria di Francesco, ancora fresca dopo molti anni, ricordava che suo padre non aveva esitato nell’identificare la statua, non senza un brivido di emozione, con il famoso Laocoonte, capolavoro sommo della statuaria antica, del quale parlava Plinio nella Storia Naturale (...).

I ricordi di Francesco, che successivamente collaborerà anche con Michelangelo, sono molto nitidi, ma la lettera si presta ad alcuni fraintendimenti, assecondati da altre fantasiose ricostruzioni di testimoni indiretti della scoperta. In particolare, si è sempre ritenuto che le statue siano state ritrovate in una camera sotterranea, in conformità con la leggenda della Domus Titi, o delle terme di Tito, luogo che secondo Plinio ospitava la magnifica statua del Laocoonte realizzata da tre poco noti artisti di Rodi. Lo stesso Sangallo confermava nella lettera il legame con le terme, riferendo che il padre aveva successivamente discusso a pranzo con Michelangelo della scoperta del cosiddetto Console Gondi, la statua del senatore Macrino che edificò le terme di Firenze nel II sec. d.C..

La prima notizia certa del rinvenimento del Laocoonte è, ad ogni modo, una lettera del fiorentino Bonsignore Bonsignori a Bernardo Michelozzi datata 24 gennaio 1506. Qui, tuttavia, non c’è alcun accenno a ipogei: "A questi giorni un romano di chi non mi ricordo il nome a una sua vigna presso alle Capocce ha trovata una scultura antica bellissima di marmo". Col passare del tempo la notizia si arricchisce di particolari. In un’altra lettera senza data ma che si stima scritta quello stesso mese leggiamo che la statua fu estratta scavando "sotto terra circa a braccia sei", fino ad arrivare alla descrizione romanzesca del notaio Giovanni Sabadino degli Arienti che parla del ritrovamento “in una camera antiquissima subterranea bellissima pavimentata et incrustata mirifice et haveva murato lo usso”.

Dunque il Laocoonte era sotto terra? Era in un ipogeo? O era all’interno di una camera murata sul modello della tomba di Tutankhamon? La risposta non può che giungerci dall’unione di due elementi. Anzitutto le parole dell’unico testimone oculare del quale si abbia testimonianza: Francesco da Sangallo. Questi ci dice che era salito in groppa al cavallo del padre per recarsi alla vigna: “andamo e scesi dove erano le statue, subito mio padre disse: ‘Questo è i Laoconte che fa mentione Plinio’, e si fece crescere la buca per poterlo tira’ fuora”. Sorvolando per un istante sulla straordinaria capacità di Giuliano di dare un nome e dei padri certi alla scultura ancora mezza sepolta sotto terra, è comunque evidente che “scesi” non significa che si calarono in qualche ambiente sotterraneo, ma che smontarono dai loro cavalli.

E che il Laocoonte fosse in una buca non troppo profonda lo dimostra il fatto che la fecero semplicemente “crescere” per tirar fuori le statue.

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