Nella fattoria degli intellettuali

I maiali che grufolano sempre dove c’è da mangiare. Le pecore che si muovono in gregge. E i galli che cantano e basta

Nella fattoria  degli intellettuali

C’è l’Intellettuale maiale, che razzola nel peggior silenzio conformista dopo aver grufolato per anni in mezzo al letame ideologico. Perché quelli che urlavano per la disoccupazione, per il caro vita, per la terza settimana del mese, per i tagli alla Scuola e alla Cultura, ora invece tacciono quando gli imprenditori si suicidano, la disoccupazione raddoppia, e i muri di Pompei continuano imperterriti a franare? Dov’è lo Scrittore indignato, il Telemoralista, il Sovrintendente furioso?
C’è l’Intellettuale pecora, che si sposta in gregge, dove c’è nuova erba da brucare dietro qualsiasi Padrone abbia un cane da riporto. Perché quelli che ieri si stracciavano le vesti per la libertà di stampa schiacciata sotto il tallone del Tiranno, oggi migrano docili e in branco verso i verdi pascoli dell’informazione omologata, quelli delle interviste salivate e degli editoriali bavosi? Dove sono i Sartori, i Luttazzi, i Moretti e i «Cento autori»?
C’è l’Intellettuale gallo, che si alza prima di tutti, grida agli altri «Svegliatevi», e poi torna mansueto a dormire. Perché i popoli viola e arancione e arcobaleno, quelli sempre in piazza con le loro sacerdotesse, i loro maître à penser, le loro streghe indignate in permanente protesta contro le donne violate, la pace minacciata, la democrazia in pericolo, oggi che le donne continuano a essere umiliate anche lontano da Arcore, le spese per gli armamenti aumentano e il Parlamento è allegramente commissariato, hanno avvolto le loro bandiere e riposto i megafoni? Dove sono i Girotondini, le neo-femministe di «Se non ora quando», i Camilleri-partigiani e gli Zagrebelsky-inquisitori?
Curiosamente sempre ribattezzato con nomi presi a prestito dal regno animale - camaleonte, scimmia, pappagallo... - l’Intellettuale è per natura uno degli esseri viventi meno leali e più subdoli. Al netto delle necessarie eccezioni esistenti in natura, poche categorie professionali hanno dato prova, più dei nostri Uomini di pensiero, di inaffidabilità umana, ottusità ideologica, indegnità morale e doppiezza politica.
Inflessibile e granitico quando c’è da difendere la propria posizione individuale di fronte al nemico ideologico, spesso fino a sfidare il buonsenso, l’Intellettuale è per predisposizione culturale compiacente e arrendevole nel momento in cui si tratta di adattare le proprie opinioni personali a quelle del nuovo protettore, spesso fino a prostituire il buongusto.
Voltagabbana, conformisti, redenti, trasformisti, disertori, opportunisti, servi e venduti. Ma prima di tutto traditori.
Come la madre degli intellettuali è sempre incinta, così dovrebbe esser ciclicamente in ristampa il testo cardine sul ruolo dell’Intellettuale nella società, che ora - in felice coincidenza con l’ultimo giro di boa dell’intellighenzia italica nella scia dell’ammiraglia Monti - viene ripubblicato da Einaudi: Il tradimento dei chierici di Julien Benda. Apparso per la prima volta in Francia nel 1927 (e tradotto in Italia nel ’76), è il libro che mette il dito nella piaga purulenta del rapporto - per nulla ambiguo, anzi di specchiata evidenza - tra Cultura e Potere. Quando cambia il secondo, la prima si adegua. Molto velocemente. I peggiori critici della postmodernità, degli eccessi del capitalismo della società dei consumi e della tirannide della Finanza mondiale, in un giorno solo, quello del passaggio di consegne tra Silvio Berlusconi e Mario Monti, sono diventati i più convinti cantori della tecnocrazia economica, dei banchieri come sobri padri di famiglia, del liberalismo selvaggio e della iper-flessibilità del lavoro.
Giornalisti, professori, politologi, economisti, cineasti, romanzieri, teatranti, artisti. L’intera chiesa dei chierici italiani, dai Papi dell’opinionismo militante all’ultimo chierichetto della più piccola parrocchia televisiva, tronfi dei loro strabismi interessati e dei loro ipocriti pregiudizi, hanno ancora una volta rivoltato la realtà. A proprio consumo e utilità particulare. Abiurando quella funzione di «custode di valori universali» (e non politici) cui Benda aveva destinato il vero Intellettuale, colui che «non persegue fini pratici e cerca la soddisfazione nell’esercizio dell’arte ... nel possesso di un bene non temporale».
In sconfortante antitesi rispetto ai precetti di Benda, secondo il quale i «chierici» devono essere alieni dalle passioni politiche e culturalmente indipendenti dai poteri partitici, il nostro Intellettuale non perde il vizio né l’occasione di prostrarsi davanti agli interessi di carriera, alle rendite monetarie, alle ghiotte posizioni mediatiche. A ogni nuovo sovrano, un veloce giro di valzer. E l’Intellettuale, invece che rimanere in disparte a osservare e giudicare e correggere, come raccomanda Benda, si precipita in mezzo al salone a danzare. Dal passo dell’oca al salto della quaglia, l’uomo di pensiero, del resto, ha sempre manifestato una notevole predisposizione per le feste e i party.
Come il celebre Economista che abbaia(va) editoriali sferzanti e poi si accuccia tra le gambe del Padrone appena questi getta l’osso. O il Venerato Maestro fino a ieri lamentoso e oggi zittito da una presidenza di teatro. O l’Artista allora arrabbiato per i tagli alla Cultura e oggi allineato in un fruttuoso incarico di sottosegretariato.
I chierici hanno ancora una volta tradito, con il ghigno e l’arroganza della solita presunta superiorità morale.

Per Julien Benda dovevano essere il fior fiore del disinteresse, i campioni dell’imparzialità, i sacerdoti della ricerca spirituale. E invece ecco i soliti asserviti, miliziani del potere, cattivi maestri e cervelli in affitto. I servi migliori di ogni nuovo regime, mossi come sempre dalle peggiori intenzioni.

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