Non aprite quella casa (editrice) Se no la burocrazia vi ucciderà

Tasse, regole complicatissime, distribuzione bloccata e lungaggini Lanciarsi nel mercato editoriale è un'impresa titanica. Parola di esperto

Non aprite quella casa (editrice) Se no la burocrazia vi ucciderà

Volete aprire una casa editrice? Vi hanno detto che oggi fare impresa è più facile? Avete prestato fede alle promesse di Renzi di ridurre la burocrazia e le tasse? Alle parole di Monti quando assicurava che i giovani avrebbero potuto costituire una società con un euro? Se avete creduto a tutto questo avete vinto il Premio Babbeo dell'Anno. La verità è che chi vuole fondare una casa editrice deve affrontare non solo un surplus di burocrazia e costi, ma anche rischiare di finire in un reparto di Neuropsichiatria.

Partirò da un indovinello. Giovanni, Marco e Paola vogliono aprire una casa editrice. Su suggerimento del commercialista (figura immancabile della contemporaneità, come il prete nell'Ottocento) optano per una società a responsabilità limitata, 10mila euro di capitale sociale (il minimo consentito). Dopo aver depositato in banca i tre decimi del capitale previsti dalla legge, si recano dal notaio, firmano l'atto costitutivo e, dopo aver pagato l'onorario (non meno di 1800 euro), si sentono dire: «C'è però un piccolo problema. Per ottenere la partita Iva e l'iscrizione alla Camera di Commercio, come la legge impone, bisogna disporre di una PEC (casella di posta certificata). Ma per ottenere una PEC occorre avere già la partiva Iva». I tre si scambiano un'occhiata fra l'incredulo e il divertito. «Ci sta dicendo che per ottenere la partita Iva dobbiamo avere la PEC e per ottenere la PEC dobbiamo avere la partita Iva?». «Proprio così» risponde il notaio allargando le braccia. «E allora come si fa?» domandano allibiti. Inizia un balletto di telefonate: il notaio parla col commercialista, il commercialista coi tre aspiranti editori, questi con una società che fornisce PEC, ma non se ne viene a capo. I ragazzi perdono la pazienza: «Non saremo certo i primi! Come fanno gli altri?». Dopo un attimo di esitazione: «Purtroppo sono le nuove disposizioni di legge, e una soluzione non c'è... Ognuno trova il modo di arrangiarsi come può... Basta individuare l'anello debole della catena e trovare una scappatoia». E ora, che fare? Come sapete, con un po' di buona volontà in Italia una soluzione si trova sempre. Lascio al lettore scovare la soluzione.

Ma questo, ovviamente, non è che il principio. Perché un istante dopo il notaio aggiunge che, PEC o non PEC, senza il supporto di un commercialista non può inoltrare richiesta di partita Iva. E infine ricorda loro che devono saldare con un assegno perché il pagamento deve essere tracciabile e dunque serve un conto in banca. Riassumiamo: notaio, commercialista, banca. Restano solo il geometra e l'avvocato e poi non manca nessuno. Ma il peggio deve venire. Il giorno dopo, col morale sotto i tacchi, i tre si recano dal commercialista, che presenta subito il conto: 355 euro per l'iscrizione nel registro delle imprese, 1.480 per la comunicazione d'inizio attività alla Camera di commercio, 395,17 per la vidimazione dei libri sociali, 115,80 per la famosa PEC, un importo variabile per l'iscrizione all'Inps. E naturalmente c'è l'onorario del commercialista di cui tenere conto. I ragazzi mettono mano al portafogli e a fine giornata si rendono conto che, prima ancora di aver cominciato a lavorare e a produrre qualcosa, il capitale sociale si è già quasi dimezzato. E non è finita. C'è da farsi assegnare il codice Isbn (quello che trovate sul retro di copertina dei libri), indispensabile per commercializzare le loro pubblicazioni: costo dell'operazione 292,80 euro. C'è poi da registrare il marchio: altri 245 euro, oltre alla pazienza di cui ci si deve armare per far fronte all'indolenza e ignavia dei funzionari dell'ufficio marchi e brevetti, distaccato presso la Camera di commercio. E poi c'è la banca presso la quale vi recherete per aprire il conto: vi farà cascare dall'alto ogni cosa, vi chiederà di sottoscrivere un documento chiamato «antiriciclaggio» di cui nessuno pare capire l'utilità (se riciclate denaro, non sarete così stupidi da dichiararlo). Dovrete rispondere a un fuoco di fila di domande ed esibire una quantità di documenti di cui sul momento non disporrete e per ottenere i quali dovrete rivolgervi nuovamente al notaio e al commercialista. E poi naturalmente la società andrà censita e se volete operare con l'home banking bisognerà fare richiesta di un codice operativo. Altro tempo, altri costi. Se per di più avete fatto domanda per un piccolo fido, vi aspettano decine di firme da apporre. E guardatevi bene dal cambiare la sede sociale: sarebbero altri 380 euro alla Camera di commercio.

Ma ora finalmente si parte, direte voi. Certo. Ma tenete presente che il proprietario dell'ufficio che avrete affittato vi chiederà una lauta caparra più il primo mese o trimestre anticipato. E ve la dovrete vedere coi tempi della Telecom per l'allaccio delle linee telefoniche e dell'Adsl, con la società elettrica, con quella del gas, con le loro arzigogolate procedure di attivazione, con le ore di attesa quando vi rivolgerete ai loro numeri verdi. Imparerete a convivere con adempimenti burocratici pressoché quotidiani, in un quadro normativo che cambia ogni anno in peggio, con una sfilza di tasse da far accapponare la pelle: Iva, Ires, Irap, Tari, Tasi o Tares o Tirsu o Trise (o come diavolo si chiama), ritenute d'acconto, acconti su imposte future, contributi previdenziali, tasse camerali, tasse annuali sui libri sociali, costi per la frequenza obbligatoria a corsi di primo soccorso e sicurezza sul lavoro (e relativi aggiornamenti periodici). E poi il famigerato Entratel, il modello 770, il redditometro, lo spesometro, la nuova Certificazione Unica (centinaia di pagine da stampare e spedire in triplice copia, alla faccia dell'informatizzazione e delle campagne per il risparmio della carta). E ancora la tenuta del libro dei verbali, il registro delle tirature, il foglio delle presenze, il libro matricola, il Dps (documento programmatico per la sicurezza), quello della valutazione dei rischi, la redazione del bilancio annuale coi suoi rovelli interpretativi, la compilazione degli studi di settore, la fattura elettronica per chi lavora con enti pubblici (te le fa il commercialista, ovviamente non gratis), la dichiarazione dei redditi. Per non parlare dei folli interessi bancari sui fidi... E non abbiamo ancora fatto cenno al fatto che vi servirà un buon distributore, altrimenti i libri come ci arrivano in libreria? E questo è l'ostacolo degli ostacoli. Anche perché è in atto una rivoluzione. Si sta passando da una situazione di relativa concorrenza a una di quasi monopolio. Il tutto con l'avallo dell'Antitrust, che ha autorizzato la fusione tra il gruppo Messaggerie Libri e Feltrinelli (socio unico di Pde, l'altro distributore storico), assai più nefasta per il pluralismo editoriale del paventato matrimonio tra Mondadori e Rizzoli. Grazie a una sentenza dell'Antitrust del dicembre 2014, per trovarsi un distributore tutto si è fatto più complicato. Dovrete presentare una mole di documentazione prima non necessaria. Vi verrà richiesto di esibire documenti attestanti la solidità finanziaria della vostra azienda: in soldoni, si tratterà di dimostrare di non avere gli ultimi due bilanci in perdita (ma se sei nuovo come fai a esibire gli ultimi due bilanci?) e di non essere gravato da protesti. Dovrete dimostrare inoltre di possedere una solida rete di promozione. Ma fermiamoci qui, per carità, benché ci sarebbe altro da aggiungere.

Anche perché a questo punto i nostri baldi giovani sono invecchiati perlomeno di cinquant'anni, se non all'anagrafe perlomeno nello spirito. Ma in fondo sono stati fortunati. A semplificargli le cose ci ha pensato Renzi. Altrimenti, sai che dolori!

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