Ora Mauro Corona tenta la scalata al genere gotico E arriva in vetta

Ora Mauro Corona tenta la scalata  al genere gotico E arriva in vetta

Quanti passi sono necessari perché uno scrittore abbandoni il bosco di Bambi per la foresta noir? Intanto lo spostamento dalle Alpi agli Appennini, primo indizio che doveva far supporre un cambiamento, se non radicale, quantomeno importante. Poi il fatto che Mauro Corona, autore da due milioni e mezzo di copie, non ha pubblicato il piccolo esperimento de La casa dei sette ponti (pag. 63, euro 7,50) - ma ormai il destino di gran parte della letteratura contemporanea è d'essere breve, tanto che, per chi legge digitale, ormai non si distingue più l'anteprima di assaggio degli ebook dall'intero ebook - con il suo editore di riferimento, Mondadori, ma, come annunciammo in anteprima dal Salone di Torino, con Feltrinelli («Un cambio di versante per vedere altre opportunità di scalata. Ma, pur se devo chiarire alcune cose, in Mondadori vorrei restarci. Ho debiti di amicizia e riconoscenza, anche perché mi hanno insegnato la cosa piú importante: che sono un mediocre» ha dichiarato al suo Messaggero Veneto). Poi il fatto che l'idea del racconto venga da un toponimo reale, come accade anche a un maestro del genere come Joe Lansdale: i «sette ponti» sono gli scavalcamenti fluviali della vecchia Porrettana. E la casa Corona la vede ogni volta che va in Appennino a trovare Guccini, in una valle secondaria. Poi l'incipit ingannevole, in cui si è condotti di nuovo attraverso i boschi, come se si trattasse di uno di quei raccontini «facili e felici» degli esordi. Felicità per signore che ora sembra abbandonata.
Perché, guadate le prime pagine, il romanzo procede verso il gotico, il thriller psicologico-surreale. E se con la forma si ferma a un passo dal noir, con i contenuti ci traguarda praticamente secco, in tutti i sensi e, vista la mano felice dimostrata qui, speriamo diventi presto il suo unico genere praticato. Protagonista di questo «debutto» tra Dürrenmatt e i Grimm - di cui si erano mostrati segni anche in La fine del mondo storto - un industriale tessile di Prato che ha avuto ragione anche dei cinesi (caro Nesi, nei romanzi di Corona è possibile) e che ogni tanto torna all'Abetone. Passa vicino alla casa, bussa. E ci trova arsenico e vecchi merletti. I due vecchietti che la abitano sono peggio dell'Upupa di Aristofane: lo spediscono alla ricerca del suo passato attraverso i sette ponti come The Game spediva Michael Douglas in un'avventura a rischio vita. Andrà male, malissimo. O anche bene, benissimo, per chi ama le nemesi estreme tipiche del thriller.

L'espressionismo di Corona diventa adulto, pagato il debito al Vajont, fa emergere l'anima trentina sturm und drang e si avvera quel che supponevamo quando con occhio luciferino interrompeva le interviste barbariche di Daria Bignardi per chiedere l'ennesima birretta: non era grossolanità da falegnameria, ma astuta cattiveria narrativa. Una manna, per la buona letteratura nera.

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