di Marco Cubeddu*
C arlo B. cammina arrancando, a testa bassa, sotto il sole stridente. A guardarlo sembra lo stereotipo di un reduce. L'espressione di uno che sta triturando un limone coi denti e l'ostentazione un po' idiota del suo arrancare meccanico, stretto in quegli abiti stinti, lo fanno assomigliare a un mix tra un vecchio cowboy e un metallaro attempato.
Il 15 d'agosto a mezzogiorno e quaranta, Torino è un inferno.
Passando per Piazza della Repubblica per andare sul set, Carlo è in cerca di nient'altro che un po' d'ombra. Non gli verrebbe mai in mente di comprare stupefacenti così vicino al Municipio, da un marocchino qualunque.
Un faccione sorridente gli ricorda che Torino siamo noi. Tutti noi. Anche tu.
«Che ne facciano parte anche gli spacciatori marocchini?», si domanda Carlo, mentre solleva il dito medio in direzione dell'ennesimo manifesto elettorale.
«Fumo, amico, fumo?»
Porta Palazzo, di giorno e di notte, è il regno incontrastato degli spacciatori. E i loro clienti, prevalentemente ragazzini, coltivano il timore insensato che uno di questi sifilitici arabacci estragga di colpo una minuscola lametta taglia fumo e li depredi del nuovo modello di iPhone. Carlo, anche da ragazzo, non ha mai sopportato i coglioni che si fanno le canne. Gli sono sempre sembrate manie da centri sociali, hippy camuffati da pensatori alternativi. E Carlo ha sempre odiato gli hippy con tutto se stesso. Parecchi anni prima, nei mesi in cui studiava cinema a Los Angeles, e abitava in uno studio dalle parti di Venice, doveva sedare con svariati bloody mary i suoi rigurgiti quando inciampava in un surfista sorridente con la sua tavola montata su un piccolo rimorchio fissato sulla bicicletta, che bloccava il traffico per dire a un giocoliere, in equilibrio su un elastico colorato teso fra due enormi palme, «uossaaaa?!?».
Odiava ferocemente quei fannulloni che bighellonavano tutto il santo giorno indossando abiti da surfer spippacchiando marjuana medica tra un frullato vitaminico e l'altro.
E ancora adesso, nelle sue notti popolate di incubi, dopo essere finito in galera ed essersi riciclato come regista di film pornografici, gli capita di provare un po' di sollievo solo quando sogna di dar fuoco, sotto a un cielo stellato, ad un vitamin bar di Santa Monica.
Carlo trattiene un conato e agita la mano in direzione di un tredicenne con una peluria adolescenziale al posto dei baffi che gli sussurra «amico, amico, fumo, fumo buono».
Svolta digrignando i denti per una specie di vicolo, sporco, con un vaghissimo odore di urina assolutamente inusuale per una città come Torino, così diversa dalle città di porto dove invece non pisciare per strada viene preso per un comportamento sospetto e antisociale.
Mentre ha una mano ancora a mezz'aria gli viene incontro, di sbieco, una ragazzina: capelli corti quasi biondi, orecchie un po' a sventola, occhi obliqui. Indossa una canottiera bianca senza reggiseno, da uomo, sporca di un verde vivo sul davanti, da cui risaltano i seni appena accennati, tumorali, pantaloncini corti, forse un costume da bagno, infradito di gomma.
- Compra una rosa.
- No, grazie.
- Guarda che mi metto a urlare
- ?
-
e dico che hai cercato di violentarmi.
- Cosa?
La ragazzina spezza un fiore con la mano, lo getta sul lastricato e lo calpesta mentre avanza verso di lui, le dita dei piedi, come su una tastiera invisibile, che si divincolano dentro quella prigione sudaticcia di caucciù.
- Se non compri i miei fiori, dico che mi hai aggredita, che mi hai buttato per terra e che hai cercato di violentarmi.
La ragazzina getta un altro fiore per terra.
- Siamo a 2.
- Cosa?
- Tre - dice la ragazzina gettandone un altro.
- Sentimi bene
- Quattro. Devo continuare? Costano cari i miei fiori.
Carlo sta per mollarle un ceffone. Poi si sofferma sulle orecchie, un po' a sventola, i capelli castano chiari, tenuti legati in una codina sbilenca, la patina di sudore sul collo. E un brivido di eccitazione, come un formicolio, lo riporta indietro ai tempi dei suoi primi film.
- Quant'è che vuoi?
La ragazzina ne butta un quinto e lo calpesta guardando Carlo dritto in faccia, come pensando, ma nel contempo sfidandolo.
-Cinque euro a rosa, sono cinque rose, cinquanta euro.
- Venticinque.
- Più venticinque per il disturbo.
Carlo è sudato fradicio.
- Sai che hai veramente la faccia come il culo?
- Devo rimettermi a contare?
Carlo sospira, si toglie gli occhiali da sole e tira fuori guardingo il portafoglio dalla tasca, lentamente, continuando a guardarla.
- Ti frutta molto questo giochetto?
- Abbastanza.
- E se ero un poliziotto?
- Non ce l'hai, l'aria del poliziotto.
Carlo guarda nel portafoglio. Maledetto lui, ha solo banconote da 100. Quella ragazzina è meravigliosa. Sarebbe la protagonista perfetta per un suo film. Ma non si sogna certo di dare cento euro a quella piccola degenerata.
- Non ho contante.
- Non dire cazzate, guarda che mi metto a urlare.
- Senti, cerchiamo un bancomat, ok?
- Non ho tempo per cercare un bancomat. Io mi metto a urlare adesso.
- Non è il caso di metterti a urlare. Non ho soldi con me. Il portafoglio è vuoto, toh, guarda?
Carlo le allunga il portafoglio aprendo la tasca coi soldi, sommersa da ordini del giorno e piani di lavorazione, sotto cui stanno al sicuro le tre verdeggianti banconote da cento. Ed è così che quella piccola fioraia, incredula, gli strappa di mano il portafoglio e scappa via.
Carlo è impietrito mentre lei, semivoltata di schiena, si distende in un arco flessuoso: il giovane collo s'inclina, come quando un lupo si sottomette a un altro, le ginocchia, nude e segnate da cicatrici ancora fresche, si flettono in uno scatto felino mentre scatta come una centometrista e il fermoimmagine della sua bocca, infittita da deliziosi denti irregolari, con due canini che ricordano le zanne di un piccolo predatore, contratta in una smorfia vagamente erotica, si scioglie in un sorriso soddisfatto.
Cappuccetto rosso e il lupo cattivo.
Una bambina dalle idee chiare.
Un lupo vago delle cose perse.
E il tempo smette di esistere nella mente conturbata di Carlo. A fiotti, una sensazione lontana gli prende lo stomaco. E le tempie pulsano, gli occhi, non più protetti dalle lenti scure degli occhiali, si sforzano di combattere tutto quel sole che gli impedisce di vedere l'ombra in cui già si è riimmersa lei.
Essendo scappata nella direzione in cui stava andando lui, non gli resta che annotare con disappunto che non ricorda il colore dei suoi occhi.
«Indaco?» si trova a farfugliare confusamente.
«Che il diavolo mi porti...» pensa Carlo, che avrebbe voluto annusarle il collo, per sentire da vicino, un'ultima volta, quella punta acre di sudore, che concentra tutta la freschezza e la provocatoria e proibita sostanza materiale della giovinezza, mentre moriva. Perché ne è sicuro: le fitte che gli stanno paralizzando un braccio e facendo spalancare la bocca sono l'incipit di un arresto cardiaco.
* autore di C.U.B.A.M.S.C. Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori)
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