Il ricordo Nel 2001 Sgarbi tentò di portarlo a Venezia

Avessero avuto un'idea in zucca gli Storr, le Martinez, le Curiger! Direttori delle arti visive della Biennale individuati, tra i depensanti, da Presidenti che non volevano far conoscere lo stato dell'arte ma il prêt-à-porter, con correttezza e rispetto non per gli artisti e per il loro disperato tentativo di esistere, ma per il mercato e le tendenze. Ah, le tendenze!
Dopo la breve stagione di Luigi Carluccio nel 1980 e un interludio di Jean Clear, la Biennale di Venezia non ha più avuto un'identità, e nel 2001 perse l'occasione di avere la più originale, libera e autonoma edizione. Si apriva il nuovo millennio, ma non erano ancora cadute le due torri.
Mi sembrava naturale che il Governo interloquisse con i vertici della Biennale, come certamente aveva fatto Veltroni; e, quindi, con Urbani parlammo con Paolo Baratta (c'era anche allora !). Che sembrò disponibile. L'idea era semplice: andare in America e incontrare Martin Scorsese e chiedergli di dirigere il Festival del Cinema, e Robert Hughes per chiedergli di dirigere il settore Arte. Così andò. Partimmo con Alain Elkann e ottenemmo il consenso dell'uno e dell'altro. Più labile quello di Scorsese, che prese informazioni dall'amico Gillo Pontecorvo e ritirò la sua disponibilità con il pretesto che eravamo un governo fascista (notoriamente Elkann è ebreo); più durevole quella di Hughes che ottenne l'aspettativa da Times di cui era il critico, a riprova delle sue buone intenzioni. Ci telefonammo poi nei mesi successivi, dopo l'11 settembre, e tutto sembrava confermato, ma Urbani pensò bene di chiedere le dimissioni di Baratta (che, da galantuomo, non esitò a darle) e, dopo varie consultazioni, di nominare presidente della Biennale Franco Bernabè. Hughes era eccitato, pieno di entusiasmo e, come si sa, dotato di un pensiero autonomo e idee originali.
L'arte contemporanea è guidata da occhi non liberi, mentre Hughes vedeva con la innocenza e la libertà del bambino davanti all'Imperatore. Dissacratorio, indifferente alle mode, guidato da un'ammirazione incondizionata - e pour cause, rispetto all'arte moderna - per Goya. Da lì forse derivava la libertà del suo sguardo.
Ma Bernabè non era disponibile a capirlo. Non voleva né uno spirito libero né un critico indipendente. Così, mentre io a Parigi, al Salone del Libro, nel bellissimo padiglione disegnato da Pierluigi Pizzi, sulle linee della biblioteca palatina di Petitot, incontravo la ministra francesce Pasqua che non voleva stringere la mano a Berlusconi, e venivo aggredito da manifestanti ispirati da Eco, Tabucchi e Consolo, in un situazione assai spiacevole, il ministro Urbani da Roma, serafico, mi comunicava che no, Hughes non andava bene, troppo costoso, troppo ingovernabile, e che invece era disponibile, su proposta di Bernabè, un critico importante, che era pur stato in America, Francesco Bonami.

Così, con grande imbarazzo, dovemmo comunicare a Hughes (non so se più incazzato o sollevato) che il posto non c'era più. Cominciò così il mio dissidio con Urbani, e la Biennale perse una occasione storica per iniziare un percorso di verità senza finzioni, tradito allora, speriamo non tradito per sempre.

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