La rivolta delle macchine contro l'umanità superba

Ci crediamo capaci delle più ardue imprese in campo sociale, morale e speculativo. Ma siamo impotenti di fronte a un umile bullone che si rifiuta di fare il suo mestiere

La rivolta delle macchine contro l'umanità superba

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un ampio stralcio di Una rivolta, articolo di Guido Morselli apparso per la prima volta nell'edizione del 3 febbraio 1950 della Prealpina. Il racconto dà il titolo alla raccolta Una rivolta e altri scritti (1932-1966) di Guido Morselli, a cura di Alessandro Gaudio e Linda Terziroli (Bietti, pagg. 350, euro 24, in libreria in questi giorni).

Il primo degli incredibili annunci comparve nei giornali, il 3 di febbraio, senza speciale rilievo. A Li­verpool era accaduto questo: i cacciaviti in uso in un’officina, unicamente i cacciaviti, erano divenuti d’un tratto inservibili, ridottosi il metallo alla mollez­za sorda del piombo. Lo stesso giorno, a Sheffield, in un opifi­cio dove si fabbricavano fra l’al­tro cacciaviti, una partita di que­sti arnesi ap­pena fabbricati ave­va subito la medesima inopina­ta trasformazione. Il 5 febbraio, l’identico caso si verificava in quattro diversi stabilimenti, nel distretto russo di Nishni Novgo­rod- gia Gorki- e nel Belgio: ana­loghe segnalazioni giungevano il giorno seguente da Essen, da Lilla, da Napoli, dalla Nuova Ze­landa, dall’America del Sud. La «peste dei cacciaviti»si propaga­va con fulminea rapidità ai con­tinenti più lontani. Verso la meta di febbraio, il mondo non disponeva più di un cac­ciavite, né era in grado di fab­bricarne. Con proterva ostina­zione, quasi umana, l’acciaio si rifiutava a quel modesto ma in­dispensabile ufficio. (…) I gover­ni consultavano affannosamen­te. Radio e stampa erano assor­bite dalla discussione del nuo­vo e «assurdo» (dicevano tutti), ma intanto insolubile e capita­le, problema. Le industrie, i traf­fici, le comunicazioni, gia alla fi­ne del mese rivelavano sintomi di una paralisi senza precedenti e, pareva, senza rimedio.(…) Il 20 di marzo si apprendeva che in un ristorante di Coney Island, presso New York, il gior­no prima non si era potuto far uso degli apriscatole di cucina: questi avevano perso la tempe­ra come per incanto. Il padrone del ristorante assurse di colpo a una cupa celebrità, e mentre il Congresso si riuniva d’urgenza una ventata di panico si abbatté sugli Stati Uniti. Se la peste dei cacciaviti si estendeva agli apri­scatole, duecento milioni di americani rischiavano di patire la fame. Tentativi di adibire al­l’apertura dei recipienti di latta la fiamma ossidrica, non ebbe­ro esito. In tutto il mondo i servi­zi aerei e ferroviari venivano ri­dotti; più d’un terzo degli stabili­menti industriali, compresi mu­lini e panifici, erano fermi e i porti gremiti di navi in disar­mo; chiuse, perché senza mer­ci, moltissime botteghe: i tea­tri, dopo un’effimera rivin­cita sui cinematografi, ces­savano a loro volta. Smar­rimento e disordine nelle popolazioni. Aumento improvviso della crimina­lità. La disoccupazione tri­plicata in poche settimane. Denunciata da ogni parte una ripresa del comunismo, ossia di quella stessa tendenza politica in cui da un decennio la grande rivoluzione socialista in Russia aveva segnato la fine. Mi­gliaia di forestieri affluivano in Italia, paese anche in questo frangente considerato il meno infelice, come quello in cui, la manutenzione essendovi stata sempre piuttosto trascurata, le macchine e in genere i mezzi di produzione e di trasporto aveva­no più probabilità di resistere al­lo «sciopero» dei cacciaviti. An­che in Italia, nondimeno, le lo­comotive principiavano a non voler sapere di far servizio; i tele­foni non rispondevano più del tutto alle chiamate, e le cande­le, divenute oggetto di prudenti accaparramenti, toccavano prezzi ingentissimi. Einstein, quasi centenario, dichiarava che a causa dell’arresto delle calcolatrici elettroniche la sua ultima e definitiva scoperta sa­rebbe morta con lui. Tale pro­spettiva d’altronde non preoc­cupava nessuno, nel generale ri­stagno delle sue attività intellet­tuali. Qualche maggior emozio­ne produsse, riferisce il mio dia­rio, il suicidio di un giovane Evans, canadese, dopo che la fi­danzata, ammalata di cuore e sottoposta al«polmone»mecca­nico, era entrata in coma, in se­guito a un guasto, lieve ma or­mai irreversibile, dell’apparec­chio. Il motto di un matematico spagnolo: «concedetemi… un giro di vite e vi solleverò il mon­do », non faceva più sorridere al­cuno, e in Italia era schivato co­me jettatore chi si attentava a ri­peterlo. Rinunciando all’allesti­mento della spedizione astrale gli ingegneri del politecnico in­tercontinentale del Massachu­setts lavoravano accanitamen­te e­senza risultato a studiare le­ghe capaci di sostituire il ferro e l’acciaio ribelli. Un premio di miliardi destina­to a chi escogitasse un surroga­to, magnetico o d’altra specie, del cacciavite, non si era potuto assegnare. Trionfatore delle più ardue intraprese in ogni campo, sociale, morale, specu­lativo, l’uomo si riconosceva im­potente di fronte alla umile ne­cessita di far rotare un bullone. *** Una mattina, i popoli seppe­ro che le leggi della materia ave­vano ripreso il loro vigore, cui i cacciaviti non facevano più ec­cezione.

Riti di ringraziamento e feste popolari manifestarono ovunque il sollievo dell’umani­tà salva da un’oscura minaccia: un sollievo al quale rimasero estranei solo i cultori delle scien­ze fisiche e chimiche, tuttora as­sorbiti nel compito di spiegare l’inspiegabile.

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