SAGGISTICA

Ho presentato e recensito molti libri, ma di rado me ne è capitato uno che mi abbia fatto piangere. È successo con La città della memoria di Francesca Gambaro (Alcione Editore, pagg. 244), opera tanto bella quanto insolita che ricostruisce attraverso le testimonianze degli esuli - trascritte senza togliere né gli errori di sintassi, né le ripetizioni, né le frasi in dialetto - il dramma della popolazione di Zara nel secondo dopoguerra: un dramma a lungo tenuto seminascosto per ragioni politiche, che solo negli ultimi anni ha avuto un po’ di pubblicità, ma che mai era stato reso così immediato e soprattutto così terribilmente umano come in questo volume.
Per chi se ne fosse dimenticato, Zara, città di chiara matrice veneziana della Dalmazia settentrionale, con una popolazione in grande maggioranza italiana sebbene circondata dagli slavi, fece parte del Regno d’Italia dal 1920 fino al 1947 ed era, sotto ogni rispetto, un’isola felice. Il suo martirio cominciò con l’armistizio dell’8 settembre. Pur avendo un’importanza militare molto relativa, fu dapprima sottoposta dagli anglo-americani - su istigazione di Tito - a 54 bombardamenti che rasero al suolo il 90 per cento delle costruzioni, uccisero migliaia di civili e provocarono una prima fuga della popolazione verso l’Italia. Seguirono un breve periodo di occupazione tedesca e poi, come un’apocalisse, l’invasione dei partigiani comunisti jugoslavi, che avviarono una radicale e spietata operazione di «pulizia etnica». Diversamente che in Istria, nel territorio di Zara non c’erano le foibe in cui gettare gli italiani: perciò le vittime designate venivano caricate sulle barche, portate in mezzo al canale e gettate in mare vive, con una pietra al collo. Chi riuscì a sfuggire all’eccidio rifugiò in Italia in diverse riprese, ma non ricevette l’accoglienza fraterna che gli sarebbe stata dovuta: per ordine del Pci i giuliano dalmati che fuggivano dal «paradiso socialista» per mantenere la loro nazionalità erano classificati come «fascisti»: chi non trovò rifugio presso qualche parente fu parcheggiato a lungo in campi profughi che spesso somigliavano ai Lager, o fu indotto, volente o nolente, a cercare rifugio in terre lontane, Canada, Australia o America del Sud.
Francesca Gambaro ha trent’anni, è nata a Novara e non ha perciò alcuna esperienza diretta di queste peripezie. Ma ha una nonna, Etta, e una madre, Daria, zaratine purosangue alle quali il libro è dedicato. Presumibilmente anche con il loro aiuto ha rintracciato decine di esuli sparsi per il mondo e li ha fatti parlare a ruota libera, ricostruendo una struggente memoria collettiva della tragedia quale nessun altro autore era mai riuscito a mettere insieme. L’autrice presenta il libro come un ricerca scientifica, e sotto molti aspetti lo è, nel senso che, come scrive nella prefazione, «la storia dell’esodo è stata ricostruita in rapporto a dimensioni/concetti di carattere più sociologico - e meno storico in senso stretto - quali, per esempio, la relazione tra memoria e identità, il rapporto tra memoria individuale, memoria collettiva e memoria storica, il tema della identità nazionale e della patria per gli esuli, la percezione delle responsabilità politiche a livello nazionale e internazionale per quanto è successo».
Tutto verissimo: ma, a mio avviso, il vero pregio di questo volume, che lo rende una lettura quasi obbligata per chi si interessa alle vicende dei nostri confini orientali, è la sua spontaneità, cui la Gambaro, con un mirabile lavoro di selezione, è riuscita a conferire anche un ordine logico e temporale estremamente rigoroso. Dopo aver raccolto le testimonianze dei protagonisti, le ha suddivise per argomento, assegnandole ai vari capitoli: «Il calvario della città di Zara», «Ricordi per immagini dei bombardamenti», «Lo sfollamento della città distrutta», «Dopo l’armistizio: l’occupazione tedesca», «L’occupazione dei partigiani jugoslavi», «L’esodo», «La vita nel campo profughi», «Zaratini nel mondo», «Quel che resta della memoria», «Tornare o non tornare?», «Il giorno del ricordo». E ancora, nella seconda parte, un intelligente quanto originale approfondimento della «italianità» di Zara, un’italianità che il presidente Ciampi ha cercato recentemente di sottolineare con il conferimento di una medaglia d’oro, alla quale il governo croato, toccato sul vivo, ha opposto un veto.


Alla fine della lettura mi sono chiesto perché, in due o tre occasioni, ho pianto: la risposta è che una cosa è leggere di una tragedia nei libri di storia, attraverso il filtro della critica, e una molto diversa sentirla dalla voce dei protagonisti, sia pure a oltre mezzo secolo di distanza. E - a dirla tutta - ho provato anche un po’ di vergogna per come l’Italia ha trattato questi suoi figli, che più di tutti gli altri hanno pagato il prezzo della nostra sconfitta.

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