Saranno anche stati rapporti impropri, quelli tra i vertici del Comune di Milano, e il grande costruttore Manfredi Catella: ma non ci sono prove di corruzione. A dirlo, con un provvedimento che fa irruzione sulla scena delle indagini milanesi sull'Urbanistica, stavolta non è un avvocato difensore o un giudice, come è già accaduto. È direttamente la Procura generale della Cassazione, l'organo supremo della pubblica accusa, chiamata a dire la sua sul ricorso con cui la Procura di Milano ha insistito nelle sue tesi. Il 24 ottobre il procuratore generale Cristina Marzagalli ha depositato il suo parere: chiedendo che il ricorso dei colleghi milanesi venga respinto. La parola ora passa ai giudici della Sesta sezione della Suprema Corte, che nell'udienza fissata per il 12 novembre ben potrebbero scegliere diversamente, e dare ragione alle tesi della Procura sulla Cupola che governerebbe Milano. Ma intanto il parere della Procura generale è un indubbio assist alle tesi delle difese di Catella, e anche di buona parte dei professionisti e amministratori indicati come partecipi del «Sistema Milano». Un sistema, nelle tesi della Procura milanese, fatto non solo di una serie lunga e quasi sistematica di abusi edilizi ma anche di una regia collettiva dove gli interessi della collettività vengono piegati al business del mattone, in spregio alle leggi e alla «democrazia urbanistica» invocata dai pm.
Al centro del ricorso, il capo d'accusa per cui Catella era stato arrestato nella retata che all'inizio di agosto aveva colpito sette indagati: gli accordi col Comune per l'acquisto e la ristrutturazione di un grattacielo di proprietà comunale, il Pirellino.
Per la stessa vicenda, già il giudice preliminare aveva dichiarato insufficienti gli indizi del reato di induzione indebita, contestato oltre che a Catella anche all'archistar Stefano Boeri, all'assessore Giancarlo Tancredi e anche al sindaco Beppe Sala. A fare scattare l'arresto di Catella era stata la presunta corruzione di un componente della commissione Paesaggio, l'architetto Alessandro Scandurra, che in cambio del suo okay al progetto del Pirellino avrebbe ricevuto ricchi incarichi da Coima, la società di Catella. Nella ricostruzione dei pm milanesi, è la nuova versione della corruzione: non più passaggio di buste di contanti, ma affari fittizi e parcelle reali.
Tutte le ordinanze di arresto emesse a fine luglio dal giudice preliminare Mattia Fiorentini erano state annullate, una dopo l'altra, dal tribunale del Riesame. Il 22 agosto, per la Procura era arrivata la botta finale, con la liberazione anche di Catella. Per il tribunale i contratti tra Coima e Scandurra non erano affatto fasulli: «A fronte di tali evidenze non può ritenersi sussistente alcun patto corruttivo», «non sussistono concrete e pregnanti evidenze sulla base delle quali ritenere che gli incarichi di progettazione siano stati affidati a Scandurra in ragione della sua funzione pubblica e non dell'attività di libero professionista», «la Commissione era composta da 11 membri e non vi sono evidenze di indebite pressioni o sollecitazioni da parte di Scandurra».
Le centinaia di chat depositate dalla Procura, tra cui quelle tra Catella e il sindaco Sala, dimostrano solo «l'eccessiva confidenza tra gli interlocutori che si traduceva in scambi di informazioni e valutazioni tecniche sui progetti». Ma la corruzione è un'altra cosa.
Contro questa ordinanza, la Procura aveva il 6 ottobre presentato ricorso in Cassazione, accusando il tribunale di avere preso una decisione illogica trascurando prove decisive («omissione radicale dell'analisi di decisivi elementi probatori»).
Niente di illogico, dice invece ora la Procura generale della Cassazione: «Il vaglio logico e puntuale delle risultanze operato dal Tribunale del riesame non consente alla Suprema Corte di muovere critiche, né tantomeno di operare diverse scelte di fatto».