«Non parole, un gesto, non scriverò più», così termina Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, con grande forza espressiva perché per uno scrittore finché c'è vita non c'è speranza ma solo scrittura oppure niente. Infatti l'annuncio Pavese l'ha lasciato post mortem in un'opera, mica ha convocato una conferenza stampa per dire: «Sapete che adesso smetto di scrivere con un gesto?». Al contrario la categoria dell'annuncio come coup de théâtre finale è una specie di suicidio inscenato per assistere al proprio funerale, tipo Philip Roth che annuncia di smettere di scrivere. Nessuno si è strappato i capelli, Roth ha già dato e raschiato il fondo e abbiamo perso i conti degli Zuckerman scatenati di qua e di là. Più preoccupante la motivazione: finalmente comincerà a vivere, e chissà cosa pensa di fare a settantanove anni.
In ogni caso non c'è nulla di veramente drammatico, l'annuncio di uno scrittore assomiglia più al marito che grida «Non te lo do più» per ripicca e perché sotto sotto non gli tira più. Il dramma, casomai, è un altro: oggi a nessuno frega veramente niente di cosa fa uno scrittore.
Come Stephen King, pochi anni fa: tutto un de profundis perché non aveva più idee, aveva esaurito la vena, il sangue, gli incubi, i fantasmi, e dopo neppure sei mesi ha ricominciato più di prima. Nel frattempo pare stia diventando una moda: ha dichiarato timidamente di voler smettere la canadese Alice Munro (ma forse smettono di scrivere per smettere di fumare?), più deciso l'annuncio del Premio Nobel ungherese Imre Kertész: «Non voglio più scrivere», con il rischio di farsi rispondere dai non ungheresi e dai non Olocausto addicted: «Ah, perché, scrivevi?». Per carità, nella storia sono tantissimi che avrebbero fatto meglio a smettere davvero: Hemingway si poteva sparare prima de Il vecchio e il mare, Oscar Wilde doveva tagliarsi le falangi prima di diventare un prete nel De profundis, Herman Hesse non doveva mai iniziare. E da noi uno per tutti: Alessandro Manzoni. Una vita dietro a i promessi sposi, da sciacquare e risciacquare in Arno maniacalmente e senza mai affogarli, e al danno la beffa postuma: alla fine era meglio Il Fermo e Lucia. Senza contare i tanti contabili odierni da Trevi a Carofiglio, da Gramellini a Faletti e falettini, cioè quelli che a scrivere non dovevano proprio iniziare. Alberto Arbasino è sicuramente il più elegante, il più nonchalance: ha smesso di scrivere cominciando a riscrivere. Con il risultato di far impazzire i filologi e Raffaele Manica per il Meridiano Mondadori: dovendo decidere quale delle riscritture di Fratelli d'Italia inserire, mettendo infine la prima e la seconda e tralasciando l'ultima, perché lunghissima, e perché Adelphi.
Un caso a parte è Antonio Moresco: dopo Canti del caos annunciò di voler sparire in un luogo segreto per dedicarsi a un libro postumo, e invece subito dopo uscirono Gli incendiati, venuti così, di getto, e in uscita per Mondadori un altro romanzo breve, La lucina. Perché quando ti viene ti viene. In quanto, fatemi capire: se tra un anno Roth vuole ricominciare non lo fa perché ormai l'ha dichiarato? Come Aldo Busi, sebbene sia una categoria a parte: apparentemente è simile al succitato caso di Stephen King, con la differenza che la lieta novella si trasforma in una piaga sociale senza fine. Dovrebbe essere il ritorno di un leone e invece assomiglia a un uccello che sbatte contro il vetro di una casa di Montichiari. Oltretutto e a proposito da anni non fa che ripetermi che devo smettere di scrivere, paura eh? Ma fatti i cazzi tuoi. Comunque sia Busi è un genio, merita rispetto. Non certo di finire da Luca Telese che lo presenta con la formula busiana del più grande scrittore italiano eccetera ma insieme a Aldo Cazzullo, «un altro grande scrittore», forse perché si chiamano Aldo entrambi. E allora per farla breve Busi, dopo aver smesso di scrivere per dieci anni un giorno ricomincia a scrivere, e fin qui siamo tutti felici. Ma ne viene fuori una telenovela di una pallosità mortale su Dagospia: il romanzo è autodefinito un capolavoro, poi capolavoro fallito, poi un capolavoro riuscito, poi censurato senza che nessuno lo censuri, mentre l'Italia se lo merita e non se lo merita a giorni e ripensamenti alterni.
Alla fine è il solito capolavoro assoluto e io non entro nel merito ma secondo me lo ha scritto il fido assistente di Busi, Marco Cavalli. Oppure potrebbe perfino essere, come mi suggeriscono altri maligni (sempre io, per la verità) che lo scudiero abbia scritto tutti i capolavori di Busi, da Seminario sulla gioventù a Casanova di se stessi.
Insomma, sarebbe uno scoop scoprire che L'Especialista de Barcelona è l'unico romanzo di Busi, e sarebbe davvero un capolavoro, quasi un Cavalli. Il quale Cavalli, viceversa, altra notizia, avrebbe smesso di scrivere senza annunciarlo a nessuno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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