Gli scrittori senza letteratura pensano male e scrivono peggio

Pochi scrittori hanno il talento di cogliere le mode culturali, e smascherarne l'inconsistenza. Tom Wolfe pare nato apposta per questo. Non è solo questione di Radical Chic (Castelvecchi), il reportage in cui copriva di ridicolo l'alta borghesia intellettuale newyorchese sedotta dalla violenza delle Black Panthers. Lo scrittore statunitense ha mostrato il declino dell'architettura in Maledetti architetti (Bompiani), la truffa delle avanguardie artistiche «concettuali» in Come ottenere il successo in arte (Allemandi) e le cattiva influenza, sulla cultura e sulla letteratura, delle teorie decostruzioniste di Jacques Derrida (e sodali) in numerosi saggi, ora ne La bestia umana (Mondadori). Romanziere di successo, ha spiegato il suo peculiare realismo, ispirato a Émile Zola, nel pamphlet A caccia della bestia da un miliardo di piedi (Leonardo). Strutturalismo, post-strutturalismo, decostruzionismo. Queste teorie maldigerite hanno prodotto una letteratura sterile, incapace di «vedere» e dunque raccontare il mondo. Mentre nel Dopoguerra accadeva di tutto, i romanzi sembravano provenire da un altro pianeta, popolato solo da teorie letterarie (realismo magico, post-modernismo, minimalismo). Il saggio scatenò un putiferio perché Wolfe attaccava solo i pezzi da novanta, da Gabriel García Márquez al nostro Italo Calvino, passando per Harold Pinter.

Ma le conseguenze delle teorie appena ricordate sono molto più ampie. L'idea che il linguaggio sia uno strumento d'oppressione borghese, dunque da smascherare e liberare, è la premessa necessaria per il dilagare del politicamente corretto. AG

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