Se un non-scrittore è un vero scrittore

Se un non-scrittore è un vero scrittore

Fino a oggi, sbagliando, avevo letto le opere di Daniele Del Giudice (di cui esce ora la raccolta di saggi In questa luce, Einaudi, pagg. 190, euro 18,50) come un fenomeno letterario indubbiamente rilevante, ma confinato nel perimetro degli anni Ottanta, che furono anni più difficili di quanto siamo portati a pensare.
La geografia intellettuale di quel tempo fu infatti segnata dalla morte di alcuni tra i personaggi più influenti della decade precedente: Roland Barthes nel 1980, Michel Foucault nel 1984, Italo Calvino nel 1985, Jorge Luis Borges nel 1986.
Le opere di questi grandi autori convergevano, a dispetto delle ovvie differenze, intorno ad alcune idee fondamentali - una su tutte, la nozione di «autore» - che la loro morte per qualche tempo ratificò quando però il clima culturale nel quale quelle idee si erano forgiate si era concluso.
Se infatti negli anni Settanta il tema del linguaggio letterario era strettamente connesso con alcune tematiche sociali e politiche, la tendenza successiva fu quella di inquadrare il rapporto letteratura-società puramente in termini di mercato, così che le «idee» si riducevano a loro volta a oggetti dotati di un prezzo e soggetti alle oscillazioni della borsa.
Si giunse così a quel «riuso» del pensiero (proprio come accade oggi con molti edifici) che prese il nome di postmodernità: più che un pensiero vero e proprio, un atteggiamento di mercato.
Sbagliando, ho sempre letto la narrativa di Del Giudice (ricordo Lo stadio di Wimbledon, Atlante Occidentale, Staccando l'ombra da terra, Mania) in questa prospettiva, schiacciandolo entro i termini di quella visione. La sua esattezza di stile non catturava veramente la realtà, ma piuttosto risolveva la realtà in stile, come l'uomo di Hawthorne, che in mezzo a una strada aspetta un evento e la comparsa del protagonista di quell'evento, e non sa che l'evento è in corso e il protagonista è lui. O come il Barone Rampante di Calvino, dove alla fine alberi e foglie si trasformano nuovamente nel movimento della scrittura che li ha generati.
Ma la bellissima raccolta In questa luce ci fa compiere un passo nuovo. È vero che la sua prosa narrativa comprende una quota di teoria, che può urtare chi è sensibile soprattutto agli aspetti immutabili della narrazione (perché gli stili e i linguaggi possono essere infiniti, ma la narrazione o «c'è» oppure «non c'è»). Qui, però, la flebilità della forma (scritti d'occasione, testi di conferenze, lezioni) offre a Del Giudice un'occasione di libertà che lo scrittore non si lascia sfuggire.
Così tutta la ricchezza delle sue osservazioni, l'intelligenza mai ostentata del suo procedere, lo sforzo sempre estremo (nell'intervento occasionale come nel romanzo) di attingere al «dettato», la determinazione amorosa a non dire mai una sola parola in più o in meno rispetto a un'esigenza fondamentale di ordine e completezza, il fremito «barocco» che è come l'ombra imprevista delle sue geometrie pure, tutto questo si può dispiegare quale che sia l'argomento affrontato - dal tema della fantasia a una divagazione sulla mezzanotte, dalla figura del «non-scrittore» al senso della luce in narrativa, dalla traduzione agli scritto sul volo (Del Giudice è anche pilota di aerei) - regalando a lettore un sentimento di solidità che dura il tempo che deve durare, ossia quello della lettura.
E non importa se, chiuso il libro, ci accorgiamo che la roccia su cui ci sentivamo tanto sicuri se ne sta, all'inverso, sospesa in aria. Come in un famoso quadro di Magritte. Ma anche come nella realtà dell'Universo.


In questa luce è un libro che mi sento di consigliare caldamente: vera miniera di spunti, idee, occasioni di intelligenza. Uno di quei rarissimi libri con i quali è bello assentire come anche dissentire, perché obbliga il consenso all'esercizio critico e il dissenso a un incondizionato rispetto.

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