di Nicola Crocetti
Vuoi il mio ventre per nutrirti
Vuoi i miei capelli per sfamarti
Vuoi le mie reni i miei seni la mia testa rasata
Vuoi che muoia lentamente lentamente
Che mormori morendo parole infantili.
***
Voglio mostrarmi nuda ai tuoi occhi melodiosi.
Voglio che tu mi veda mentre urlo di piacere.
Che le mie membra piegate sotto un carico
\[troppo pesante
Ti spingano a gesti blasfemi.
Che i capelli lisci della mia testa offerta
Rimangano sospesi alle tue unghie ricurve
\[di furore.
Che ti tenga in piedi cieco e devoto
Guardando dall'alto il mio corpo spiumato.
(Traduzione di Marco Conti)
«Cerco sogni da collezionare. Scrivere a Joyce Mansour, 1 avenue du Maréchal-Maunory. Parigi 16°». L'annuncio, apparso nell'ottobre del 1967 su France Soir, è di una delle più originali poetesse del secolo scorso, la surrealista anglo-egiziana Joyce Mansour. Nata nel 1928 in Inghilterra da un'agiata famiglia egiziana, Joyce Patricia Ades, dopo gli studi in Svizzera e in Inghilterra, ritorna al Cairo. Qui, giovanissima, si impegna con successo nell'atletica, battendo diversi record di salto in alto e divenendo campionessa dei cento metri in Egitto. Sposatasi nel '47, il marito muore dopo sei mesi per un male incurabile. Il secondo matrimonio con Samir Mansour, nel '49, la porta a Parigi, dove impara il francese da autodidatta e comincia a scrivere poesie. La sua prima raccolta, Cris (Grida), è l'inizio di un'imprevedibile carriera letteraria: sedici raccolte di versi, quattro testi di prosa e un'opera teatrale che fa di lei l'ultima autrice autenticamente surrealista.
Bella, elegante, posseduta dal «desiderio del desiderio senza fine», Joyce diventa amica di Breton. Scrive poesie impudiche, violente, ironiche, in cui accusa i propri amanti di non essere alla sua altezza, e maledice gli uomini che hanno rifiutato il suo corpo e la sua anima, che brucia di passione.
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