È alla soglia dei quarant'anni, Enrico Brizzi. E anche il suo più grande successo, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, un milione di copie vendute solo in Italia, ne compirà venti nel 2014. Tempo di bilanci e tre titoli in libreria lo dimostrano: i racconti su 30 anni di abitudini italiane a tavola, L'arte di stare al mondo (Mondadori); la ripubblicazione in 999 copie numerate e già ricercatissime di Bastogne (Italica edizioni) e il romanzo breve O la va o la spacca" (Barbera, che anticipiamo in questa pagina). Se si considera che nel frattempo il Nostro prosegue con i «viaggi a piedi» per la penisola e che sta girando un documentario sull'Alta Via dei Parchi, non si può dire che se ne stia in vacanza.
Con O la va o la spacca torna a narrare la contemporaneità.
«Considero questo romanzo una prova generale di ritorno alla scrittura di vicende metropolitane italiane del Ventesimo secolo. Qui c'è gente coi telefoni cellulari in mano. E anche delle pistole, veramente».
Gioventù bruciata?
«Due pazzi quarantenni invece. Umberto Ripamonti, erede della Rigorex serramenti in alluminio, tenuto lontano da tutto e da tutte le decisioni da una madre tiranna che lo tratta come un deficiente, lo umilia in pubblico, lo chiama Bubi e gli fa fallire tutti i fidanzamenti. Ragion per cui Umberto diventa puttaniere incallito, infelice e solo, sebbene il più invidiato della cittadina in cui vive. Suo ex compagno di scuola, Cabir Polentarutti, propensione naturale per le sostanze stupefacenti, pessima fama e molte storie sanguinose alle spalle. Insieme, vorrebbero estorcere soldi all'unica generazione che ancora in Italia li ha: quella dei loro genitori».
Il messaggio?
«È una storia non vera, ma i protagonisti sono così uguali ai miei coetanei presi dal vivo che non mi stupirei di sapere che il tutto accadrà domani».
Ma davvero lei ha capito gli italiani a tavola, come scrive nei racconti?
«Quando ero ragazzino e ho fatto i primi viaggi all'estero coi miei genitori, quello che mi ha colpito di più è che francesi, inglesi, tedeschi non vedessero la tavola come luogo strategico. Per noi la dimensione della cucina è sacrale, l'arena sociale: da Mangia tutto e svuota il piatto fino al nonno che ti insegna fin da piccolo che sei maschio e devi reggere il vino. E ti riempie il bicchiere fino all'orlo di Sangiovese. Tu pensi che il punto sia bere più in fretta possibile. Invece meglio tenerselo lì fino alla fine. Così impari a gestire quel che gli altri si aspettano da te».
Per non dire delle cene da scout.
«Abbiamo fatto il riso per otto persone mi dicevano. Ora vai tu a lavarlo al fiume perché sei il più giovane. Ma ci sono andato ieri e anche l'altro ieri. Ma sei sempre il più giovane e ci vai tu lo stesso».
Oggi si va di sushi?
«Il tempo in cui se non mangiavi sashimi eri la feccia della società è finito. Così come quello delle patate fritte: se difendi il cheeseburger sei trattato come un lebbroso. Oggi siamo alla terza fase: ritorno al classico. Biologico, contadino, sano. Mai più il tempo in cui le donne italiane tutte si unirono per la prova costume nel nome della dottoressa Tirone. La dieta non avrà mai più la forza del primo amore. Le mode alimentari hanno fatto il loro tempo».
Lei è stato il primo esordiente di successo nell'editoria del marketing. Neanche i debutti sono più quelli di una volta?
«Debuttai con Transeuropa, poi presi la valigia di cartone e andai a Milano a interloquire con i grandi editori che volessero rilevare il libro: cagatemi, consideratemi uno di voi. Bussavo di porta in porta o non avrei potuto entrare in questo mondo. Dovevi cercare le tue chance una per una, buttarti sotto forma di presenza fisica».
E oggi?
«Sei in contatto con tutti stando in ciabatte. Debuttare è più facile e non solo per le edizioni digitali. Quel che manca è una palestra di scrittura».
Non basta la Holden?
«Parlo della necessità di coltivarsi, avere persone in grado di darti giudizi. Ce le aveva Hemingway, non le può avere anche il giovane scrittore italiano? Dieci anni fa, un gruppetto di ragazzi mi chiese consigli su come pubblicare.
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