da Torino
Una delle lectio magistralis di maggior successo, qui al Salone di Torino, è stata, sabato scorso, «Visioni del linguaggio attraverso i secoli». Sala piena, tanti giovani, molti dei quali sinceramente entusiasti.
Il relatore? Non è Umberto Eco, sebbene sia un vip delle accademie, che ha insegnato al MIT e ad Harvard ed è amico di Chomsky. È Andrea Moro, docente di linguistica generale della Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia, una struttura gemella della Normale di Pisa, dove si occupa di sintassi delle lingue umane e neurobiologia del linguaggio. Nel firmare le copie del suo libro Parlo dunque sono (Adelphi, pagg. 106, euro 7), è lui a chiedere ai ragazzi: «Ma perché volete lautografo? Il libro non è troppo complesso?». E loro non citano né Cartesio, né Bertrand Russell, né Dio, colonne portanti del volumetto, ma rispondono: «Ci ha colpito perché sembrava appassionato».
Professore, Twitter impera, si parla per sigle, la lingua degenera e lei si appassiona?
«Twitter e i social network non fanno degenerare la lingua. Le abbreviazioni sono solo un trucco per risparmiare sulla scrittura e cerano anche nelle epigrafi latine. Mentre rapidità e frammentarietà del testo non sono mica colpa di Twitter, ma partono dalla comunicazione a singhiozzo permessa già dallinserimento della pubblicità in tv. Non abbiamo più tenuta sui discorsi lunghi perché siamo stati abituati a interromperli».
Il respiro corto affligge anche la letteratura contemporanea?
«Se parliamo di regole del linguaggio, sono le stesse da sempre, perché dipendono dalla struttura del cervello. Su questo, Tolstoj e Fabio Volo sono identici».
È un lettore di Fabio Volo?
«Sono un lettore di Gadda, Calvino e Borges e i due libri con cui voglio farmi seppellire sono il De rerum natura e lEdipo Re. Ma Fabio Volo in particolare, che ha una scrittura pop con aspetti molto paratattici in cui le immagini sembrano prevalere sul dialogo, a me piace».
Altri blockbuster per cui va pazzo?
«Harry Potter. Può darsi che la Rowling o Volo per alcuni lettori siano il traino per arrivare a Tolstoj».
Insomma: per il linguaggio è un periodo doro?
«Forse se si facesse un censimento delle parole usate nel Grande Fratello non si supererebbero le quattromila. Però oggi la possibilità di venire a contatto con parole nuove è più ampia. Bisogna spostare lattenzione dalla qualità alla consapevolezza: usare i neologismi non è negativo, ma bisogna dominare le parole usate. Parlare male vuol dire diventare vittime del pensiero degli altri».
Nessuna macchia sulla narrativa contemporanea?
«Una grave carenza cè: oggi gli scrittori mettono se stessi al centro e il risultato è una decadenza nichilista. Le storie sono deboli, si assomigliano. Manca un vero classico per tutti, una storia corale percepibile come comune. E i romanzi diventano cellette per piccioni».
In una Fenomenologia di oggi, chi prenderebbe il posto di Mike Bongiorno?
«Se me lo avesse chiesto qualche anno fa, avrei detto il giornalismo televisivo, portatore di una omogeneizzazione mostruosa. Oggi cito ancora una volta un modello stilistico narrativo fuori dalla letteratura: Vasco Rossi. Non scrive canzoni qualsiasi, ma canzoni per tutti. Non si fa cannibalizzare dai social network, li cannibalizza».
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