Noi del Giornale abbiamo un inviato specialissimo: senza voler troppo spandere, è il più forte corridore per le gare in linea di ciclismo. Il nuovo Bettini. Inutile specificare chi sia questo nostro strano collega, visto che i lettori hanno imparato a frequentarlo tutti i giorni durante l'ultimo (disastroso) Tour de France. È lui o non è lui, direbbe Ezio Greggio: ma sì, è lui, Damiano Cunego. Tre settimane dopo il secondo posto al Mondiale varesino - secondo e non primo solo per nobile obbedienza alla causa nazionale -, prontissima ed entusiasmante replica sulle strade del Lombardia, stabilmente e indiscutibilmente una delle corse più sciccose al mondo. Un capolavoro, nient'altro che un capolavoro.
Da Varese a Como, da un lago all'altro: tutto a distanza di poco tempo e di pochi chilometri. Al Mondiale la dimostrazione d'essere in forma strepitosa, al Lombardia anche di più e di meglio: attacco sul Civiglio, venti chilometri dal traguardo, discesa d'alta scuola per sbarazzarsi dei tre compagni fuggiaschi, quindi la solitaria e travolgente cavalcata fino al lungolago, scollinando in solitudine anche sul San Fermo. È vittoria d'autore. Per la cronaca e per la storia, è anche formidabile tris. Rispetto ai precedenti Lombardia vinti (2004 e 2007), questo è ancora più bello e più importante. Primo perché è dominato con impresa solitaria, il che per i degustatori di bicicletta resta sempre la delizia delle delizie. Secondo perché arriva a conferma di un pronostico opprimente. Se c'è una cosa complicatissima nello sport, questa è vincere quando tutti quanti lo dicono dalla settimana prima. Come fosse un obbligo. O una pura formalità. La situazione che si crea non è per niente divertente: se si vince, s'è fatto semplicemente il proprio dovere, se si perde, è pubblico ludibrio. Cunego queste cose le sa, le prova sulla propria pelle, e puntualmente le riporta a fine corsa: «Ero nervoso, alla partenza. Quando gli avversari ti mettono in mezzo, può succedere di tutto. Ho cercato soltanto di rispondere con serenità e tranquillità. L'ultimo chilometro? Me lo sono proprio gustato. Troppo bello».
Troppo bello e troppo grande. Nell'anno del feroce fallimento al Tour, il Piccolo Principe scopre forse le sue risorse migliori: le risorse umane e nascoste di chi sa reagire a una tramvata memorabile, respingendo la tentazione di lasciarsi andare. È la conferma che nella vita serve tutto: vittorie e sconfitte. Spesso, più le sconfitte delle vittorie. Cunego era un ragazzo prodigio approdato troppo presto alle piacevolezze del successo. I bagni di sangue susseguenti, evidentemente, sono valsi più di tante chiacchiere. Ed eccolo così a 27 anni, sportivamente ancora giovanissimo, pronto a raccogliere l'eredità del suo maestro, quel Paolo Bettini da poco passato a miglior vita (in senso buono: si gode le pensione facendo dei suoi hobby nuovi mestieri). Ovviamente Cunego ne va giustamente fiero, ma cocciutamente rifiuta d'essere chiuso in questo ruolo. Cocciutamente è convinto di poter vincere - anzi, rivincere - pure i grandi giri. «Vedrò di farvi cambiare idea», dice sorridendo agli scettici. In effetti, non gli manca il tempo per nulla: per completare la simpatica collezione di classiche, per aggredire spensieratamente Giro, Tour e Vuelta.
Per il momento, niente fretta. Dopo il ritorno di Basso, l'Italia saluta quello che in definitiva è anche il ritorno di Cunego. Il suo, nel gotha mondiale. Chi in modo malevolo e piccino gli rinfaccia di aver battuto poca concorrenza ha voglia di scherzare: il signor Cunego ha battuto tutti i ciclisti viventi, cioè quelli sopravvissuti al giudizio universale del doping. Se ne sono rimasti pochi, la colpa non è sua. Anzi, se mai è un ulteriore merito.
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