nostro inviato a Termoli
Black hole, buco nero. Non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti linchiesta più pazza del mondo che tra ombre e oscuri retroscena vede la luce nel Basso Molise, laddove è venuto al mondo Antonio Di Pietro. Tra Termoli, Larino e Campobasso cè infatti un ex collega dellattuale ministro delle Infrastrutture, già rappresentante dei Ds in Parlamento, che ha recentemente arrestato carabinieri, poliziotti, vigili urbani, avvocati, ipotizzando una sorta di Spectre interna al tribunale asservita a una lobby politica già colpita dallo stesso pm Nicola Magrone in una precedente inchiesta lontana, però, ancora dal concludersi con successo. Un «centro di potere e di malaffare» eterodiretto, nelle convinzioni della procura, da un certo Remo Di Giandomenico, ex professore di Di Pietro in seminario, ex deputato dellUdc, ex sindaco di Termoli a più riprese, ex «mister preferenze» nel 2001 per aver ridicolizzato nellurna le aspirazioni politiche del suo ex alunno.
Leggendo le carte dellinchiesta riesce complicato intuire come sia stato possibile arrestare o indagare esponenti delle forze dellordine e noti legali, ad esempio, per non aver pagato quindici fotocopie o i diritti di urgenza di un atto giudiziario (roba da 9 euro), per aver usato il pc dellufficio per collegarsi a un sito porno,a rischio o a una pagina web di auto depoca per informarsi sullacquisto di una Fiat 500, per aver arrotondato unora di straordinario, per aver criticato coi colleghi certe iniziative del procuratore capo, per aver chiamato la moglie col telefono di lavoro, per essersi tutti associati (compresi quelli che tra loro non si conoscono) al fine di sovvertire lordine costituito in procura. È impresa ardua perché, al di là di taluni singoli comportamenti criticabili sotto il profilo della buona amministrazione della cosa pubblica, da questo secondo filone non esce la prova necessaria a rinforzare il primo. Anzi.
Per entrare nei dettagli di questa pazza pazza inchiesta occorre andare agli esordi investigativi. A quando cioè, la procura si convince che il potentissimo Di Giandomenico è a capo di un comitato daffari del quale fa parte anche la moglie-primario, giustappunto perseguita dagli inquirenti perché sospettata - in quanto consorte delluomo nero - daver percorso una corsia preferenziale per stravincere un concorso. Travolto da accuse di vario tenore riferite al 2003, Di Giandomenico urla prima la sua innocenza elencando tutta una serie di falsi documentali - a suo dire - contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, e poi sfida platealmente il pm Magrone «a parlarne in pubblico e a chiudere quanto prima le indagini» per fare «un processo aperto a tutti, da tenersi magari allo stadio Cannassa perché è ora che lintera cittadinanza sappia come sono stato messo in croce sul niente». Per la cronaca Di Giandomenico, sottinchiesta dal 2003, viene iscritto sul registro degli indagati solo a fine 2005 ritrovandosi così, casualmente, sulla graticola giudiziaria alla vigilia delle elezioni del 2006. Per lui viene chiesto larresto, che la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera respinge allunanimità inorridita dal tenore di certi accertamenti. Il più eclatante fa riferimento ad una intercettazione telefonica della moglie di Di Giandomenico nella quale, nellambito di un ragionamento più ampio sullacquisto di un ecografo tridimensionale, viene citato marginalmente il nome di Luca Cordero di Montenzemolo. Tanto basta ai pm per convocare urgentemente in Molise il numero uno di Confindustria. Il 22 febbraio 2005, decisamente irritato, Montezemolo a verbale spiega di non conoscere né lex sindaco, né la moglie, né la storia dellecografo, di non essere mai stato allospedale di Termoli, città dove - fino al giorno prima dellinterrogatorio - non aveva nemmeno mai messo piede: la copertura altissima di cui avrebbe goduto il clan molisano crolla sul nascere. Nel frattempo Di Giandomenico è costretto a farsi da parte, il centrosinistra vince di un pelo, la Cassazione stronca il procedimento, scade limmunità parlamentare, Di Giandomenico prima finisce ai domiciliari, poi esiliato dal Gip lontano da Termoli. Linchiesta, però, stranamente non si chiude. Vegeta silente. Sino a quando, e siamo ai giorni nostri, ecco esplodere la «Black Hole 2» con lipotesi di unassociazione criminale interna alla procura dedita a spifferare notizie riservate ad unaltra associazione di delinquenti, quella capeggiata dallex sindaco-deputato. Prove dirette? Nessuna. Supposizioni? Infinite. Lunico accenno specifico, nitido, nemmeno a Di Giandomenico ma alla precedente indagine, traspare dallintercettazione di un indagato che a un certo punto parla di un capannone e più avanti pronuncia le fatidiche due parole: «Black Hole». Stop. Non cè altro. Se non un coacervo di supposizioni assemblate su taluni comportamenti degli arrestati che, seppur criticabili, non sembrano avere il crisma dellassociazionismo criminale teorizzato dalla procura. Prendete il colonnello Maurizio Coppola, comandante provinciale dei carabinieri: non conosce Di Giandomenico né gran parte degli arrestati, i fatti contestati risalgono a prima del suo insediamento a Campobasso, non esiste una telefonata, unintercettazione ambientale, una citazione neppure indiretta degli indagati che dimostri la sua appartenenza alla squadra di sbirri infedeli. Eppure è finito dentro perché, vuoi o non vuoi, la procura è andata a sindacare più «scelte di comando» interne allArma su un maresciallo da tempo in guerra con un capitano, ovvero «il» capitano coccolato dalla procura per le sue indagini sulluno-due di Black Hole. Interrogato in carcere il colonnello ha rivendicato con forza le sue scelte, le ha fatte capire al gip ed è tornato subito a casa, ai domiciliari, comunque distrutto a livello di psiche, di immagine, di carriera.
E che dire di Ugo Sciarretta, anello di congiunzione ideale fra i due procedimenti poiché in qualità di comandante dei vigili urbani di Termoli, ovviamente, è lunico a conoscere lex sindaco Di Giandomenico. Lo accusano di aver saputo, chissà come e chissà da chi, delle indagini in corso sul suo conto: al gip ha dimostrato che non esistono talpe in tribunale perché lui stesso, oltre a mezzo paese, dal fruttivendolo al macellaio, si era accorto che i carabinieri lo pedinavano. Così anche Sciarretta ha lasciato la cella. E come non citare il caso del maresciallo dei carabinieri, Giovanni Pagano, responsabile della sezione di pg della procura di Larino. Gli hanno contestato il reato di corruzione impropria per aver chiesto e ottenuto un estintore (che poi si è scoperto essere un accendino a forma di estintore) da un personaggio risultato ignoto (che poi sè scoperto essere suo figlio) contattato telefonicamente da unutenza intestata a una donna (che poi si è scoperto essere sua moglie) in cambio di un favore: scaricare da internet documentazione imprecisata (che poi si è scoperto essere una striscia di cartoni animati).
Come non citare, ancora, il peculato in concorso contestato ad altri presunti sodali dellorganizzazione criminale, tra cui lavvocato Romanazzi, «perché in concorso tra loro utilizzavano una fotocopiatrice e relativa carta eludendo i diritti di cancelleria». Letterale dallordinanza: «Per numero 14 pagine venivano pagati euro 1,56 invece di euro 9,30 che sarebbero stati dovuti, atteso che le copie erano rilasciate lo stesso giorno, quindi con urgenza». E cè di più. Sempre il gip, pagina 234. Si contesta ancora allavvocato (peraltro difensore di alcuni degli indagati) daver appreso informazioni tutelate dal segreto «relative ad un fascicolo processuale non meglio identificato».
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it
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