«Ma Curzio quella pelle se la inventò»

E ra il 1941 e Lino Pellegrini aveva solo 25 anni quando, inviato di guerra del Popolo d’Italia, conobbe Curzio Malaparte e ne divenne amico sul fronte orientale, da cui il futuro scrittore della Pelle inviava le sue corrispondenze al Corriere della Sera. La Germania aveva lanciato l’operazione «Barbarossa» che prevedeva l’invasione della Russia e i giornalisti seguirono le operazioni di una colonna dell’esercito tedesco in Moldavia e in Bessarabia, fino in Ucraina, tra villaggi incendiati e città distrutte. Pellegrini, che ha trascorso la sua vita a Milano, ha recentemente ricordato episodi e aneddoti di quegli anni di convivenza, che tratteggiano la contraddittoria personalità del più anziano ed esperto collega da cui fu definito, sulle pagine di Kaputt, «uno stupido fascista». Il caso fa riferimento ai giorni della repressione contro la rivolta ebraica a Jasci, in Romania. I due inviati, che dividevano la stessa abitazione, ebbero una pericolosa discussione con il capo della polizia della città occupata. Malaparte, che allora aveva 43 anni, descrive così il giovane Pellegrini: «Era uno stupido fascista, e poi, si capisce, io ero un po' geloso di lui, avrei preferito che fosse più brutto e meno fascista, e lo disprezzavo dentro di me: fino al giorno in cui lo vidi affrontare il Capo della polizia di Jassy e gridargli sul muso “brutto assassino“». Pellegrini ricorda che più tardi Malaparte gli chiese se, per caso, fosse impazzito: «Dopo di allora -scrive in un lungo memoriale pubblicato su Ordine- mi chiesi se Curzio avesse sangue ebreo come qualcuno in Italia sussurrava; di certo amava affermare la propria arianità». Il suo fare esperto colpì il giovane cronista: «Populista, cercava l’amicizia dei potenti e moderava la sua aggressività con l’astuzia dell’opportunismo, odiava i fascisti della corrente di Ciano, ma per lui personalmente faceva eccezione perchè era stato proprio il genero di Mussolini a tirarlo fuori dal confino di Lipari».
Pellegrini, che fu al fianco di Malaparte anche in Russia, viene da lui citato nella “Pelle“, il romanzo che consacrò lo scrittore di Prato. Siamo nel fatidico capitolo in cui il reporter descrive con dovizia di crudi dettagli l’episodio dell’ebreo schiacciato dai cingoli di un carro armato nelle vie di Jampol, in Ucraina. «tappeto di pelle umana» venne issata sulla punta di una vanga a mo’ di bandiera dai ribelli del ghetto. Di quella «pelle», Malaparte scrive a pagina 270: «Dissi a Pellegrini che mi sedeva accanto: è la bandiera dell’Europa, quella, è la nostra bandiera. (...) Andiamo a veder seppellire la nostra bandiera». Pellegrini ricorda con affetto: «Lui le stragi degli ebrei di Jasci non le vide mai, così come non vide i morti “fuggire“ dai carri ferroviari, ma sulle pagine di Kaputt ha scolpito tutto meglio di un testimone oculare. Lui, l’ebreo spiaccicato da un Panzer e trasformato in bandiera non lo vide affatto perchè non esisteva ma, mentre scriveva della pelle-bandiera, probabilmente ci credette. Oltre che trasformista, Malaparte era un mitomane».


Di brillanti invenzioni, del resto, «La pelle» è ricca, come nelle immagini poco edificanti delle madri napoletane che vendevano i figlioletti seminudi ai soldati marocchini nelle piazze del centro storico, smentite dai testimoni oculari, o come quelle leggendarie della «cacciata» dei soldati tedeschi nei sobborghi di Partenope da parte dei napoletani nell’autunno del ’43. Licenze poetiche, forse non sempre esemplari nel gusto. Ma alla letteratura, si sa, non si addice il dovere di cronaca.

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