Dai cristiani «inconsapevoli» dipende il futuro della Chiesa

Bruno Fasani

Scrivo in margine al Convegno ecclesiale di Verona, che si chiude stamane, dopo la visita di Benedetto XVI. Sono tante le suggestioni dalle quali partire, anche se il dato più eloquente va cercato nei temi che si sono affrontati. Vita affettiva, mondo del lavoro e festa, fragilità umana, cittadinanza e tradizione, nelle loro varie e complesse articolazioni, raccontano il tentativo della chiesa di aprirsi al mondo, in maniera tutt’altro che autoreferenziale.
Sembrano trascorsi anni luce da quando si tenevano convegni, nei quali si parlava di liturgia, carità, missionarietà, spiritualità: temi più intenti ad indagare ad intra che ad extra del perimetro ecclesiale. In questo ampliamento di prospettiva sembra prendere corpo lo spirito vero del Concilio Vaticano II, là dove si indicava come priorità della chiesa l’attenzione a tutto l’uomo e a tutti gli uomini. Una rivoluzione copernicana, che smantellava una visione dualista, tanto intenta a «salvare le anime» quanto distratta sulla loro dimensione sociale ed extra ecclesiale. Una rivoluzione capace di recuperare il senso della giustizia evangelica, che non consiste nel dare ad ognuno le stesse cose, ma a ciascuno ciò che manca alla sua realizzazione in pienezza. Prende così forza la testimonianza di Gesù Cristo che dà il pane con la stessa facilità con cui perdona i peccati, che restituisce dignità sociale agli emarginati, nella stessa misura in cui li cura dalle loro infermità, che valorizza la donna, mentre si fa servo dei bambini.
Qualcuno potrebbe pensare che dietro a questa presa di coscienza possa nascondersi una sorta di sociologismo imperante, capace di svuotare la chiesa stessa della sua identità spirituale più profonda. È un rischio in cui si potrebbe incappare, ma è anche l’unica via per sottrarre il cristianesimo al pericolo del suo snaturarsi. Se cade Dio cade anche l’uomo, dicevano gli antichi. Ma potremmo tranquillamente rovesciare l’assunto: senza attenzione all’uomo, anche Dio diventa inutile. Che l’uomo contemporaneo corra dei pericoli è un dato incontestabile. La si chiama la questione antropologica. Più puntualmente, il rimando è al rapporto conflittuale tra l’etica e le nuove frontiere della scienza e della tecnologia e gli stili di vita che ne derivano.
Ma interessarsi dell’uomo vuol dire anche il tentativo di ridurre lo iato esistente tra la dimensione sociale e personale dei cittadini e quella politica ed economica. È indubbio il peso che queste due ultime realtà esercitano sugli individui e sulle loro coscienze, anche attraverso la potente strumentazione mediatica a disposizione, rischiando di mettere in crisi il pre-politico su cui si regge la vita sociale, come la famiglia, le associazioni, i sindacati, il volontariato: cioè la dimensione costitutiva della polis. Basterebbe leggere la Finanziaria in questa prospettiva, per rendersi conto, al di là degli slogan di maniera, quale sia oggi il pericolo dell’idolatria politica, più appiattita sui bilanci che non sui destini dell’uomo.
Leggevo sul Foglio le argomentazioni critiche della penna sapida dell’«Elefantino», nel merito della citazione fatta dal cardinale Tettamanzi, durante la prolusione al Convegno di Verona, quando, citando Sant’Ignazio di Antiochia, ricordava che «È meglio essere cristiani che non dirsi tali, piuttosto che dirsi cristiani senza esserlo». Giuliano Ferrara, dando sospensione alla buona fede del Presule, il quale, in realtà, parlava ai cattolici richiamandoli alla coerenza, pone i presupposti per un quesito più radicale: è possibile servire insieme l’uomo e migliorare il suo ambito vitale, approdando a fini condivisi, pur prescindendo da una comunione di fede? La domanda, lontana dall’esaurirsi in risposte inquietanti, spalanca scenari di consolante speranza.

Non fu forse Ciro, il re siro e pagano a liberare Israele dalla schiavitù di Babilonia? Non furono i membri «laici», estranei alla casta sacerdotale, a profetare nel generale smarrimento del popolo che si liberava dalla schiavitù dell’Egitto? Non fu, infine, Gesù a rimproverare gli apostoli quando volevano scacciare i taumaturghi che operavano per il popolo, solo perché non appartenevano al loro gruppo? La parola del Maestro, risuona forte oggi come allora: «Non glielo impedite, perché chi è non è contro di noi, è con noi».

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