Controcultura

Dai Salmi a Zanzotto per risorgere un po'

Il virus è una lunga quaresima. Usciamone almeno leggendo...

Dai Salmi a Zanzotto per risorgere un po'

Le chiese sono da troppi mesi respingenti, con quella selva di cartelli ansiogeni all'ingresso, l'acqua santa prosciugata, i banchi rovinati dagli adesivi delle postazioni obbligatorie, il numero chiuso alle messe festive... Le librerie, specie se all'interno c'è un libraio amico, risultano un poco più accoglienti e pertanto, durante l'ultima quaresima, la tentazione del cristiano è stata quella di leggere anziché di praticare. La tentazione mia, chiaro. E il cedimento mio, chiaro altrettanto (credo).

Ho ceduto per colpa innanzitutto della traduzione dei Salmi di Davide Brullo, un cospicuo volume Aragno: impossibile resistere alla tentazione rappresentata dal lessico acceso di un poeta credente, dopo tanti anni di versioni Cei, certo meno poetiche, forse pure meno credenti, e sempre in sospetto di edulcorazione. Brullo di sicuro non edulcora, anzi il sospetto è di segno opposto: che non stia esagerando? «Alzati Yhwh salvami Dio/ segna il viso ai nemici/ spacca i denti ai malvagi», fa dire al Salmo 3. Possibile? A chi va ascritta questa enfasi? Vado a controllare la vecchia Bibbia ufficiale, rilasciata nella remota Pasqua 1974 da Antonio card. Poma («arcivescovo di Bologna, presidente della Conferenza Episcopale Italiana»), che se non ricordo male mi ha sempre risparmiato il tetragramma biblico, l'impronunciabile teonimo veterotestamentario. E infatti leggo «Sorgi, Signore,/ salvami mio Dio». Ma i denti invece che da spezzare sono già spezzati, e dunque l'esagerato non è Davide Brullo, è Davide e basta, re d'Israele e autore del salmo in questione.

Il tono dei Salmi è molto più quaresimale che pasquale, come il traduttore sottolinea: «La scena è scabra, essenziale, beckettiana, allucinata. Il deserto, pietrificato, anzi, meglio, il nulla, il vuoto, l'uomo che galleggia in questo nulla fitto di dolore, e urla all'Altro: dove sei?». È la terribile domanda del Cristo in Croce («Dio mio, perché mi hai abbandonato?») e dunque potrebbero anche essere parole pasquali, però nel senso del Venerdì Santo. Sto parlando di una lettura impegnativa perfino dal punto di vista fisico: io leggo molto a letto, accidioso qual sono, ma stavolta, sarà per la bella carta spessa, mi sarebbe stato utile un piccolo leggio. Avvertenza: per conciliare il sonno meglio una tisana, il Salterio anziché calmare può facilmente mettere agitazione. Il Salmo 9 si conclude alla stregua di un film dell'orrore: «Yhwh è il dio della paura/ l'uomo è una cosa che muore». Il Salmo 18 è la cronaca di un massacro: «Bracco i nemici li assalto/ non arretro prima del macello/ li fiocino e non riemergono/ sotto i miei piedi è una mattanza/ mi forgi nella forza/ stronchi chi mi scortica/ mi offri il cranio dei miei nemici».

C'entra qualcosa tutto ciò col cristianesimo corrente, col cattochitarrismo parrocchiale, col bergoglismo misericordioso e immigrazionista? Nulla. E così oltre alla durezza intrinseca del testo c'è la tristezza dei pensieri che evoca, lo sconforto per l'apostasia che avanza. Se i vescovi tedeschi credessero ai Salmi la pianterebbero subito di benedire le coppie di Sodoma, tremando al solo pensiero di poter suscitare l'ira di Dio. E invece, da Essen a Limburgo, non credono a nulla che non sia mondano, «si ribellano sempre/ la colpa li preme nell'abisso».

Per prendere fiato ho intervallato i Salmi con Francesca Serragnoli, La quasi notte (MC Edizioni): tenera poesia femminile in un volumetto leggero, meno di ottanta pagine. Se i Salmi sono sovrumani i suoi versi sono umanissimi: «Il primo amore/ il viso di lei un fiore». Viene voglia di innamorarsi, mentre coi Salmi viene voglia di pentirsi, di mortificarsi, perché l'amore vi è previsto solo in forma mistica, incielata: niente ragazze e niente fiori. Non che la poetessa bolognese ignori il Venerdì Santo, anzi, a pagina 14 «il pianto dal costato/ riempie un calice/ il brindisi di una mano». Solo che molto evidentemente non ci troviamo nel deserto, bensì circondati dal verde, visto che «dormiamo abbracciati alla terra/ con un petalo aperto all'ape di Cristo». Fondale di queste poesie che profumano di un cattolicesimo delicatamente carnale, feriale, affettuoso come una carezza nei capelli, come un piatto di passatelli in brodo, potrebbe essere la collina di San Luca, in vista del santuario. Siccome al posto del temibile Yhwh aleggia la dolce Maria rifugio dei peccatori che siamo.

Centrato sulla Via Crucis è il terzo libro della mia Pasqua poetica, La croce e la via di Daniele Mencarelli (San Paolo). Anzi, per non farci mancare nulla le vie crucis sono addirittura due, entrambe con le canoniche quattordici stazioni. La prima via crucis, in prosa, riguarda un finanziere esaltato, supercompetitivo, capace di ottenere grandi successi mammonici e però, alla fine, profondamente infelice: «Perché la vittoria non colma?». La seconda, in poesia, è la classica Via Dolorosa della passione e morte di Nostro Signore. Nessuna collina verdeggiante, da nessuna parte: il finanziere superomista lavora com'è logico in un grattacielo (da sempre la hybris architettonica è al servizio della hybris del potere), mentre Cristo si sa che venne crocefisso su un montarozzo tetro, inevitabilmente spelacchiato. Nella seconda sezione mi è sembrato, a tratti, di sentire l'eco di Jacopone, e ho colto una commovente definizione del legno fatale: «Da albero a croce da croce a nido». La copertina non invita e nel risvolto spicca un avverbio, «laicamente», ottimo per innervosirmi e per attenuare agli occhi degli increduli il cristianesimo dell'autore. Dettagli. La croce e la via è un coraggioso tentativo di attualizzare la speranza del «regno dove nulla soffre/ e a morire è solo la morte».

Ho letto tanto, per questa Pasqua, ma non sono mai sazio di letture e infine, dopo tre libri recentissimi, ho sentito il bisogno di riaprire il Meridiano di Andrea Zanzotto, uscito da tanti anni. Lui sì, il poeta veneto, poco o nulla devoto, e ciò nonostante destinatario dell'spirazione stellare che gli ha consentito di scrivere La Pasqua a Pieve di Soligo. Lunga poesia di difficile decifrazione in cui sono incastonati versi di immediatezza assoluta, di assoluta felicità: «È il tempo del Passaggio, del Signore: piangete/ e gioite meco voi che di erbette avete fame, di vini sete».

Ogni volta che la rileggo mi viene voglia di piangere e di bere e di augurare a tutti buona Pasqua.

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