MilanoI più, arrivano in metrò. Sono la sua gente, il popolo del Silvio, quelli con il groppo in gola e gli occhi rossi, la rabbia in pancia e le mani che prudono. Quelli che «lui, il Cavaliere, dovrebbero farlo santo». Ma anche quelli che «Di Pietro ce lo diano a noi, sappiamo bene il regalino da fargli a Natale». Si affollano lì, alla fermata della linea verde che ricorda una vecchia cascina di periferia chiamata Gobba perché - assicura chi sa - il capomastro era sempre ciucco e così «el mür lè vegnu su stort». Aspettano la navetta che porta fin sotto alle benedicenti ali del San Raffaele di otto metri divenuto simbolo dellomonimo ospedale di eccellenza, alla periferia est della città.
Una volta riemersi allaperto, in un freddo boia, guardano verso lalto, cercando di indovinare quale sia la finestra della stanza 713, al settimo piano del padiglione «Q». Sanno già, lhanno sentito alla radio, che Berlusconi è ricoverato lì. «Se lei che è giornalista lo riesce a vedere, gli dica che qui cè gente che gli vuole bene e che ieri sera ha pianto e ha pregato per lui la Madonna della Guardia. Era così spaventato, poverino». È gente semplice come le parole della signora Francesca Zunino, felpona bianca con la zip nel mezzo, a dividere in due la scritta azzurra «Ita-lia», a caratteri cubitali. «Sono venuta qui da Genova per fargli sapere che so che lui è innocente e che se poi ha anche ballato il tip-tap sono fatti suoi. Quello che è successo - insiste lei, sfidando il gelo e un diabete alle stelle - è una vergogna perché lui è il simbolo di tutti noi e anche soltanto per questo va rispettato. Non gli si tira addosso nulla, né una pietra né un cuscino».
Ha ancora negli occhi, il popolo del Silvio, quella maschera di sangue e quella smorfia di dolore viste e riviste in tv. Ed è preoccupato. Non li rassicura quella frase «sta meglio», chiosata con un «ma non tanto bene», strappata dai cronisti a un insolitamente poco loquace Ignazio La Russa, reduce dalla visita al premier ferito in compagnia del presidente della Camera, Gianfranco Fini, muto come una statua di sale. «Mi è sembrato reattivo, contento che Fini sia venuto a fargli visita - aggiunge il ministro - non hanno parlato di politica, il loro è stato un incontro umano».
Qualcuno invece mugugna, pur se cè anche chi apprezza, vedendo arrivare il segretario del Pd. Pierluigi Bersani ribadisce come la condanna della violenza debba essere «senza se e senza ma», per ristabilire «la civiltà politica, ma soprattutto la buona educazione». Concetti - «civiltà» e «buona educazione» - che sembrano evocare, forse per contrasto, il nemico numero uno, il convitato di pietra: Antonio Di Pietro, curiosa assonanza. «A quello lì gli ficcherei la testa là sotto», schiuma rosso in volto il signor Di Pasquale («conta il cognome, il nome non importa»), accennando con lo sguardo allacqua verdognola e gelata della grande fontana che domina lingresso dellospedale. Minaccia privata che trova conforto nella reprimenda pubblica espressa dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, che definisce senza eufemismi «vomitevoli, indegne di un uomo politico e di una persona civile», le dichiarazioni fatte dal leader dellItalia dei valori a commento dellattentato.
Mentre quasi non vista arriva e scivola via Marina, la primogenita del premier, protetti da muri di forze dellordine e assediati da coacervi di cameramen sono tanti i volti noti che si alternano al settimo piano del padiglione «Q»: dal direttore del Giornale, Vittorio Feltri, allonorevole Daniela Santanchè; dallamico di sempre Fedele Confalonieri al presidente della Provincia di Milano Guido Podestà; dallad di Mediaset, Giuliano Adreani, alla delegazione del comune toscano di Pietrasanta, capitanata dal sindaco Massimo Mallegni.
Ognuno ha una parola. Commuovono quelle del presidente del Senato, Renato Schifani: «Al di là del dolore, ciò che fa soffrire il presidente è lodio politico trasformato in aggressione». Sollevano quelle del portavoce Paolo Bonaiuti: «è dolorante, ma sempre di buon umore».
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