Dark Souls, nel mondo delle anime oscure la memoria ci salverà

La creazione di Hidetaka Miyazaki (di cui è da poco uscita la terza parte) varca i confini dell'intrattenimento e diventa arte. E secondo qualcuno anche un trattato di semiotica

Andrea Mancia

Ci sono eventi, rarissimi, che cambiano il corso della storia. E la pubblicazione dei primi videogiochi della serie Souls, sviluppati da From Software con la visionaria direzione di Hidetaka Miyazaki, è sicuramente un caso di questo tipo. Perché Miyazaki, soprattutto nel primo Dark Souls (2011), ma anche nel recentissimo Dark Souls III appena uscito in Italia, è riuscito a creare un mondo che spinge il prodotto videoludico oltre i suoi confini conosciuti, più vicino alla forma purissima dell'arte che a quella del semplice entertainment.

Vestendo i panni di uno sfortunato avventuriero, sempre in bilico (letteralmente) tra la vita e la morte, camminiamo con passo incerto in un ambiente ostile, in cui il pericolo si nasconde dietro ogni angolo, costretti ad avanzare verso l'ignoto senza un motivo apparente. Non sono i personaggi che incontriamo sul nostro cammino a raccontarci la trama di Dark Souls. E neppure filmati interminabili che (come troppo spesso accade) cercano di scimmiottare gli stilemi classici del medium cinematografico. A svelarci i segreti dell'universo in cui siamo (mal)capitati, infatti, sono i piccoli oggetti che troviamo sul selciato, i dettagli delle armi in cui ci imbattiamo per caso, i particolari apparentemente insignificanti. È quella «semiotica del silenzio» di cui scrive Adriano di Medio in un saggio appena arrivato in libreria (Dark Souls. Semiotica del raccontare in silenzio, Universitalia), grazie alla quale anche il mistero più insondabile diventa, all'improvviso, perfettamente comprensibile.

Non ci sono mappe, in Dark Souls, se non quelle che faticosamente ricostruiamo con la nostra memoria. O che magari decidiamo di immaginare, confrontando le esperienze appena vissute con quelle degli altri giocatori che hanno scelto di percorrere la stessa, straziante strada verso l'abisso. Ma è proprio questo metodo di narrazione emergente, dettata dai ritmi dell'esplorazione, mai troppo diretta o troppo esplicita che insieme alla profondità tattica e strategica dei combattimenti rende i «Souls» un'esperienza indimenticabile. E che ha portato milioni di persone in tutto il pianeta ad attendere con ansia quasi patologica l'uscita di Dark Souls III. Ansia, per la verità, alimentata anche dall'uscita del gioco in Giappone che ha preceduto di qualche settimana il suo arrivo sui mercati occidentali. Spingendo moltitudini di aspiranti avventurieri a compiere operazioni funamboliche per acquistare il titolo sugli store digitali nipponici, improvvisando disperate traduzioni con Google Translate e improbabili transazioni in yen pur di mettere le mani sulla creatura di Miyazaki con qualche giorno d'anticipo.

Sì, perché Dark Souls è ormai diventato un fenomeno di massa, dopo anni trascorsi a nascondersi tra le pieghe di un mercato di nicchia, tesoro ben custodito dai pochi impavidi che osavano sfidare la leggendaria difficoltà di un gioco in cui tutto è dannatamente solido, pesante, quasi sempre mortale. Pesanti le armature che raccogliamo per proteggerci, ma che rallentano ogni movimento. Pesanti le armi e gli scudi a cui affidiamo le scarse possibilità di sopravvivenza. Pesanti i nemici, che ci travolgono intuendo la nostra vulnerabilità, il nostro terrore. E pesante l'atmosfera che ci circonda, il senso di oppressione che affiora da ogni scelta che compiamo, portatrice di conseguenze che possiamo solo azzardarci a immaginare.

Oscuri, affascinanti e, appunto, difficilissimi ma senza mai dare la sensazione di essere ingiusti i «Souls» sono action-rpg (giochi di ruolo d'azione) che riescono a miscelare il miglior dark fantasy occidentale con la maniacalità nella cura dei dettagli tipica della tradizione giapponese. Ma i primi due titoli sono stati sleeper hit capaci di conquistare il pubblico con la sola forza del passa-parola. Demon's Souls (2009), pubblicato in esclusiva per Playstation 3, è stato abbandonato da Sony per il suo scarso successo commerciale. E Dark Souls nasce come suo seguito spirituale proprio per l'impossibilità dei nuovi distributori (Bandai-Namco) di portare il brand originale anche sulle piattaforme della concorrenza. Un clamoroso errore di valutazione, quello di Sony, che dopo qualche anno è tornata a bussare alla porta di Miyazaki per realizzare lo splendido spin-off esclusivo per Playstation 4 Bloodborne (2015) che ha definitivamente consacrato la serie tra la platea mainstream.

Tra Demon's Souls e Bloodborne sono passati solo 6 anni. Ma nel frattempo tutto è cambiato. È cambiata From Software, che nei «Souls» ha scoperto una miniera d'oro. È cambiata Sony, che ha avuto il coraggio di tornare sui propri passi, ammettendo l'errore iniziale. È cambiato il mercato dei videogiochi, che sembra aver ritrovato il gusto di sfidare giocatori troppo a lungo blanditi con titoli iper-semplificati. Ma sono cambiati soprattutto loro, i giocatori, che dopo questa cura shock non potranno mai più tornare quelli di prima.

Qualche giorno fa al Vigamus, il Museo dei videogiochi di Roma, un manipolo di appassionati si è sfidato, all'ultimo sangue, nel torneo organizzato durante il «Dark Souls III Day». Qualcuno ha vinto, qualcuno ha perso (git gud!).

Ma ognuno di loro, una volta rientrato a casa, è tornato al proprio inevitabile e imperscrutabile destino: morire, ripetutamente, nel disperato tentativo di salvare l'universo dalla distruzione. E mai morte è stata tanto sublime.

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