Ma il «deficiente» non è lo studente

Per punire un suo alunno dodicenne, una professoressa di lettere di una scuola media di Palermo lo ha costretto a scrivere cento volte sul quaderno «sono un deficiente» (tra parentesi, il malcapitato alunno ha scritto, per cento volte, «deficente» senza «i»: forse la prof di lettere ha qualche lacuna nell’insegnamento dell’ortografia). Comunque, i genitori del ragazzo hanno denunciato l’insegnante, per la quale il pubblico ministero ha chiesto due mesi di carcere per abuso di mezzi di correzione. I nostri lettori sanno bene che più volte abbiamo stigmatizzato il malcostume - oggi assai diffuso tra i genitori - di prendere sempre e comunque le difese dei propri ragazzi, e di vendicarsi sugli insegnanti a colpi di carta bollata. Ma questa volta non abbiamo dubbi: i genitori hanno fatto benissimo a denunciare l’insegnante, e il pm ha fatto ancor meglio nel chiedere per la prof una sanzione esemplare.
Non è questione di essere contro le punizioni. Quando andava a scuola il sottoscritto, l’epoca delle maestre con le bacchette di legno era finita da un pezzo (per fortuna), ma l’epoca in cui alle elementari si dà del «tu» alla maestra era (sempre per fortuna) di là da venire. Dell’insegnante si aveva un sacro timore. Quando entrava, ci si alzava in piedi. Quando spiegava, non si fiatava. Quando si sgarrava, si pagava. Il primo giorno di scuola fui buttato fuori per aver rotto un calamaio. Al doposcuola fui sospeso un giorno per aver sollevato la gonna a una compagna. Presi anche uno zero per aver bucato una pagina con la gomma. E credo che tutto questo non mi abbia danneggiato, anzi.
Però la punizione non deve trascendere. La prof di Palermo ha sbagliato perché non ha fatto distinzione tra l’atto compiuto dal ragazzo e la persona del ragazzo. Far scrivere cento volte «mi sono comportato male» ci sta; far scrivere «sono un deficiente» no, perché è un giudizio complessivo sulla persona. Per lo stesso motivo, su un giornale si può scrivere che un uomo è stato condannato per furto, ma non che è un ladro.
E poi scusateci ma abbiamo un sospetto, che riguarda lo specifico errore commesso dal ragazzo. Ha irriso un compagno dicendogli: vai nel bagno delle femmine, perché sei un gay. A scanso di equivoci, sia chiaro che chi scrive trova odioso lo scherno dell’omosessualità, vera o presunta che sia, e trova giustissimo punire chi irride un gay. Ma è pur vero che ogni epoca ha le sue sensibilità, e così come una volta c’era un’infame discriminazione contro gli omosessuali, oggi c’è spesso un’ossessione nei confronti di chi è sospettato di omofobia. Nei mesi scorsi - ricorderete - un ragazzo di sedici anni si è suicidato a Torino. Capita spesso, purtroppo, tra gli adolescenti. Ma in quell’occasione venne montato un caso nazionale perché, si diceva, il ragazzo era schernito «come gay» dai compagni. Abbiamo letto e sentito «esperti» tirare in ballo il «clima infame» creato da Ruini. Poi si è scoperto che il ragazzo non era gay, e che la sua ipersensibilità e il suo malessere avevano radici lontane: forse, chissà, magari anche nel fatto che i genitori erano separati. Chiunque faccia l’insegnante, e abbia a che fare con i ragazzi, sa bene quanto dolore c’è spesso dentro ai figli dei divorziati. Ma parlare di quel disagio oggi è un tabù.
È solo un sospetto, ripeto.

Ma siamo sicuri che se l’offesa fosse stata un’altra - una delle migliaia che volano, tra i ragazzi - la prof sarebbe stata indotta a punire quel ragazzo così duramente? Tenga conto una cosa, l’insegnante. Tenga conto che non ha reso un buon servigio agli omosessuali, perché con la sua decisione ha, di fatto anche se indirettamente, stabilito che «gay» è un insulto. Come «deficiente».
Michele Brambilla

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