La difficile sfida della modernità

Egidio Sterpa

La regola vorrebbe che mentre si vota gli opinionisti facciano silenzio. Mica vero, però, perché ieri, per esempio, i giornali erano pieni di commenti e inviti a votare da una parte o dall’altra. Noi cercheremo di rispettarla la regola, riservandoci di dire la nostra a risultati usciti dalle urne. Proveremo invece a fare qualche considerazione molto liberale sul dopo voto.
Una cosa a noi appare certa: chiunque vinca, l’Italia entrerà in un capitolo nuovo della sua storia. Non sarà un’altra Italia, come retoricamente dice qualcuno, ma sicuramente ognuno di noi, che stia a destra o a sinistra, avvertirà fortemente l’impegno, quasi l’obbligo, di cominciare a pensare in maniera diversa dal passato. Il problema dei problemi è di costruire il futuro del Paese, quello che riguarda i nostri figli, perché tutto sommato un passato non proprio da buttar via per la nostra generazione c’è stato.
È un compito immane, per il quale non basterà certo una legislatura. Si tratta di staccare definitivamente il Paese dal passato, bello o brutto che sia stato, di portarlo nella modernità. Non sarà facile, naturalmente, perché vi si opporranno odi, rancori, pregiudizi, che vengono dalla nostra storia recente ma anche dall’antica Italia delle fazioni, quelle che spesso hanno oscurato le nostre coscienze e sono da sempre, da secoli, la nostra dannazione.
Giustino Fortunato, il grande meridionalista, in un suo discorso alla Camera nel 1896 disse: «L’Italia è tuttora un Paese in cui due civiltà continuano a coesistere in un sol corpo di nazione». Sta proprio qui la causa di tanti nostri ritardi. Nei secoli dal dodicesimo al sedicesimo fummo straordinariamente in anticipo su tutti gli altri Paesi europei: nella penisola si creò una grande civiltà urbana, dalla quale fiorirono attività economiche, finanziarie, manifatturiere, commerciali, che diedero vita tra l’altro ad una ricca e potente attività nel campo delle comunicazioni marittime. Fummo titolari di un primato economico e politico-sociale, oltre che culturale, come non esisteva nel resto del continente. Perdemmo quel primato perché non fummo capaci di far nascere una struttura statuale nazionale, quella che invece si costituì in altri Paesi europei, che infatti poi divennero protagonisti assoluti della storia moderna. Il divario portò all’interruzione di quel modello di sviluppo che nei «secoli d’oro», come Montanelli li definisce, produsse il periodo più splendido del secondo millennio.
La storia, insomma, dovrebbe insegnarci qualcosa. Abbiamo avuto una campagna elettorale quasi da guerra civile. Francesco Alberoni, in una bellissima nota nella sua rubrica «Luci e ombre» su Panorama fa risalire questa «guerra civile» all’inizio degli anni Novanta, quando accanimenti politici e giudiziari hanno procurato la distruzione di una intera classe dirigente e la scomparsa di partiti storici. Ne è venuta la cosiddetta Seconda Repubblica, che in realtà è stata una transizione politica fatta di tensioni, divisioni, rovinose spaccature, una «guerra civile», appunto che ha disastrato anche le istituzioni.
Ora non si tratta di costruire una Terza Repubblica, come si ipotizza da alcuni, ma ritrovare, questo sì, i valori di una «res publica» senza colori di parte, che appartenga a tutti. In democrazia non esiste l’unanimità, lo sappiamo, ma il problema è di far sì che emerga una sensibilità generale per le esigenze della comunità, che è mancata in questi ultimi anni. Se non temessimo di cadere nella retorica, potremmo dire che l’Italia ha bisogno di un nuovo Risorgimento, culturale e morale soprattutto. Solo così può venire una politica moderna e civile, di cui l’opinione pubblica avverte fortemente l’urgenza.
Ripetiamolo: una fase politica è finita con queste elezioni.

Chiunque vinca, gli tocca il compito storico di attuare cambiamenti profondi che facciano diventare preistoria il passato. Si tratta di interpretare il desiderio di rinnovamento che nella base popolare c’è sia a destra che a sinistra, soprattutto nel mondo giovanile. Se non ne saremo capaci, allora sì davvero verrà il declino.

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