
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (pagg. 208, euro 16) è stato pubblicato da un piccolo editore, TerraRossa di Giovanni Turi. È il romanzo d'esordio di Michele Ruol, nato 39 anni fa a Chicago ("ma per caso, sono cresciuto a Padova"), di professione medico anestesista a Treviso, parla di morte e del dolore che ogni genitore fa fatica anche solo a nominare, figuriamoci a mettere per iscritto (una coppia, Madre e Padre, perde i due figli, Maggiore e Minore, in un incidente) ed è la sorpresa del Premio Strega di quest'anno: infatti, grazie alla candidatura proposta da Walter Veltroni, questo libro composto da 99 brevissimi capitoli - ciascuno dedicato a un oggetto dell'Inventario - è arrivato alla cinquina finalista e, quindi, si giocherà il premio del 2025 durante la fatidica serata di Villa Giulia, il 3 luglio.
Michele Ruol, è il suo primo romanzo: perché ha scelto un argomento così tosto?
"È il mio primo romanzo ma non è la prima cosa che scrivo: a lungo ho scritto racconti e, per dieci anni, ho scritto per il teatro. L'argomento c'entra con il fatto di essere diventato genitore. Ho cominciato questo libro nel 2020, l'anno del Covid. Ero già padre di mia figlia ma proprio in quel momento è nato il mio secondo figlio e perciò, nel mio lavoro quotidiano come anestesista, mi sentivo su un doppio fronte: da un lato in terapia intensiva, durante la prima ondata della pandemia, fra incertezza e paura; dall'altro a casa, con un neonato, con tutte le sue fragilità".
Come ha reagito?
"È stato evidente per me come la genitorialità abbia una doppia faccia: la felicità immensa e insieme la fragilità, la paura di poter perdere quello che c'è di più caro e anche la responsabilità di una creatura così indifesa. Così ho cercato di andare a esplorare proprio quella paura e quel lato oscuro, per vedere se si potesse scovare una luce anche lì dentro".
Il suo lavoro ha reso più chiara questa paura?
"Sì. In quel momento avevo paura perfino di prendere in braccio mio figlio. Non lo baciavo, per il timore di trasmettergli il virus o di fargli del male... Il Covid ha fatto emergere delle paure che non sapevamo di avere e ci ha posto davanti all'ignoto. D'altra parte sono paure che, come genitori, tantissimi abbiamo".
Come è nata la struttura del romanzo, in cui ogni capitolo rimanda a un oggetto della casa, che narra la vita dei protagonisti?
"Avevo in mente la storia ed è stato proprio grazie all'idea della struttura che si è sbloccata anche la scrittura. Mi sono confrontato con una amica fotografa, Serena Pea, e le ho proposto un albo illustrato, in cui lei avrebbe scattato le foto degli oggetti e io avrei scritto le didascalie".
E poi?
"Poi sono andato avanti a scrivere e basta. Per ora le foto non ci sono... Ho capito che potevo farlo. È un romanzo che attraversa il dolore, perciò il fatto di avere un oggetto che fa da filtro o da barriera fra chi scrive e quello che succede, o fra quello che succede e chi legge, mi ha permesso di mantenere la giusta distanza per raccontare quel dolore senza bruciarmi".
Che cos'è questo Inventario?
"C'è un evento traumatico, la morte dei due figli, che è l'incipit e incide sulla vita della coppia; ma volevo raccontare anche la storia di questa coppia, fino alla faticosa, ma progressiva ricostruzione che affronta. In questo, gli oggetti sono talismani: ho fatto un po' come gli archeologi, che trovano degli oggetti e, attraverso essi, cercano di ricostruire una civiltà scomparsa".
È il potere degli oggetti?
"Sì, gli oggetti hanno la capacità di sopravviverci e di assorbire la vita di chi li ha posseduti e, perciò, di metterci in risonanza con quelle persone e ricostruirne la vita. È una magia potente, che può riaprire le ferite e il dolore ma può anche ricucire e lenire".
Domanda obbligata: perché i protagonisti non hanno nomi propri ma solo Padre, Madre...?
"Da un lato volevo cercare di raccontare utilizzando meno parole possibili, lasciando che il silenzio prendesse il suo spazio. Di raccontare togliendo: nomi, luoghi, date. Dall'altro, i nomi universali ci rimandano a una connotazione precisa del ruolo che rivestono i personaggi: è in base a questo ruolo che si definiscono, ma le circostanze li spingono a metterlo in discussione".
Con quale risultato?
"L'identità vacilla. Si crea un cortocircuito, qui portato all'estremo, ma che può riguardare tutti noi, nel momento in cui qualcosa o qualcuno ci viene a mancare. Io seguo i personaggi nel crollo di questa identità e nel tentativo di ricostruirla".
Il suo lavoro come anestesista ha influito nell'affrontare il tema del dolore?
"Sicuramente. Mi occupo di dolore, di trattarlo e lenirlo e, da medico, è un aspetto della vita con cui spesso sono a contatto. Però è un aspetto che, oltre a spaventarci, tendiamo a rimuovere, così come la morte: facciamo fatica a parlarne, oppure ne parliamo attraverso il filtro della spettacolarizzazione, così la morte e il dolore diventano altro...".
E lei?
"Io volevo cercare di raccontarli nella loro verità, come aspetti della nostra vita, quali sono. La mia professione, più che certezze, mi lascia delle domande aperte, quelle che nutrono la scrittura e mi fanno andare in cerca di risposte attraverso di essa. Una delle domande da cui ho cominciato è: come si sopravvive al dolore?".
Perché l'essenzialità?
"Volevo che una lingua che mi permettesse di raccontare in modo asciutto e sincero, lontano dal pietismo o dallo sguazzare nel dolore. Una empatia misurata. La frammentarietà è invece legata alla struttura: tanti capitoli come tanti flash, istanti della vita di questa famiglia".
Altra domanda obbligata: si aspettava che il suo romanzo, un esordio, su un argomento così ostico, arrivasse in finale allo Strega?
"Sinceramente, quando ho iniziato a scrivere il libro, temevo che il lettore potesse essere spaventato da ciò di cui parlava... Ma sentivo la necessità di scriverlo e sono andato avanti. Però il romanzo non ha un effetto unico su chi lo legge: ho cercato, nell'attraversare il dolore, di mettervi dentro una luce, anche di speranza, che è poi l'aspetto vegetale che serpeggia nel libro. Il mistero della vita, qualcosa di più grande di noi e di inarrestabile".
La foresta?
"La foresta bruciata si riprende spazio, la casa abbandonata è invasa di vegetazione...".
Michele Ruol, anche un medico ha paura della morte, alla fine?
"Eh...
Professionalmente c'è una sorta di distacco, che ti permette di essere lucido nei momenti di stress o di emergenza; ma questo non significa che, dopo, non ci siano strascichi di dolore, di domande, di senso di colpa. Un vissuto umano che ti rimane addosso. E poi c'è la vita privata, dove non è detto si riesca ad avere la stessa lucidità. In questo siamo persone normali, e la paura fa parte della vita".