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Dominguez: «Rugby, non correre»

«Questo sport è cresciuto tanto, ma rischia di perdere le cose più belle, a partire dal terzo tempo. A Milano i miei anni più belli. Che nostalgia per l’Italia di Coste, la più forte di sempre»

Paolo Bugatto

«È questo l’inno?». Cominciò così la favola azzurra di Diego Dominguez che oggi festeggia il suo quarantesimo compleanno. Era il 2 marzo del ’91, in un grigio pomeriggio romano, con l’Italia e la Francia schierate davanti alla tribuna del Flaminio in attesa delle prime note di «Fratelli d’Italia». Da allora 74 presenze con gli azzurri e altre 2 con la maglia dei Pumas nei giorni successivi alla fine del mito di Hugo Porta. 1010 punti in test match, ben 983 con l’Italia. Meglio di lui ha fatto nel mondo solo il gallese Neil Jenkins che lo precede a quota 1090.
Il rugby oggi Dominguez lo vede da dietro una scrivania. Si occupa di organizzazione, marketing e di tutto quello che gira dietro il pacchetto di mischia. Ma è chiaro che per l’esperienza accumulata negli anni di una carriera che ha incrociato la crescita del rugby italiano, il suo osservatorio resta privilegiato. Ed è un rugby diverso quello che oggi vede il Diego nazionale. «Con gli stadi pieni, i giovani e i tanti bambini che si avvicinano al rugby ti viene voglia di tornare a giocare. Ho passato vent’anni nei campionati di prima divisione tra Argentina, Italia e Francia. Non ho rimpianti. Sono a posto con la mia coscienza. Magari il rammarico è di non aver centrato il record dei punti segnati, ma anche lì è stata una scelta che mi ha permesso di vincere un altro titolo in Francia e di centrare una finale di Heineken Cup con lo Stade Francais. Col senno di poi, se insistevo con la Nazionale per conquistare quel record, finivo per non centrare nessun traguardo...».
Quello era un rugby diverso?
«Oggi si stanno raffreddando i rapporti tra coloro che vivono di rugby. Si fanno gli stessi errori di altri sport. I giocatori di livello internazionale non si fermano un solo istante. Non c’è tempo per altre cose. Ci sono solo i sacrifici, ma è chiaro che si perde molto di quello che è racchiuso da sempre nel codice genetico della palla ovale, dal terzo tempo in poi».
Che cosa ha segnato maggiormente Diego Dominguez?
«Sicuramente i miei anni passati con il Milan, che sono stati anche i miei primi anni in Europa. Credo che quella esperienza con a capo una persona come Sandro Manzoni ha cambiato la testa del rugby italiano. Ha dato al movimento più equilibrio rispetto al dominio incontrastato avuto in passato da altre società. In nazionale poi quella maggiore qualità tecnica si è fatta sentire. Georges Coste ha fatto il resto centrando risultati incredibili. Quei giocatori che vestivano la maglia azzurra sono stati i più forti con i quali mi sia mai capitato di giocare».
In azzurro oggi comanda Pierre Berbizier. Qual è il giudizio sul suo lavoro?
«Sta facendo bene. Ha dato un input importante alla squadra. È riuscito già a tirar fuori il cento per cento dai ragazzi. Vedo giocatori motivati e soprattutto sereni».
La maglia numero 10...
«Ramiro Pez ha avuto un Sei Nazioni molto irregolare, fatto di alti e bassi. Su questo aspetto deve migliorare ancora. I giocatori che lasciano un segno a livello internazionale sono quelli che riescono soprattutto ad essere costanti nelle prestazioni. Quella è la loro forza. E la stessa cosa vale per Griffen. Non puoi alternare cose positive a cose negative. Un errore nel rugby internazionale si paga caro.

Al massimo te ne puoi permettere mezzo».

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