Da don Tanino il boss dei boss a Guglielmo spacciatore fallito

La fine di un clan. Gaetano Fidanzati, arrestato lo scorso anno, era il terrore di Milano. Il figlio ha provato a sfondare nel narcotraffico. Ma non aveva i soldi

Se al don Gaetano Fidanzati, all’epoca in cui il suo nome faceva tremare la Milano per bene e per male, avessero detto che un giorno suo figlio sarebbe finito in galera per un carico mai venduto e per uno mai arrivato, chissà cosa avrebbe detto. Una vita spesa nel crimine, quella di Gaetano detto «Tanino»: soprattutto nell’impresa di esportare nell’Italia del Nord gli affari e la cultura di Cosa Nostra siciliana. Ma il tempo passa, e non sempre le nuove generazioni sono all’altezza di quelle che le hanno precedute. Succede nel bene, nelle schiatte di imprenditori e di industriali. Ma anche nel mondo della malavita.
É una lettura interessante, quella delle 102 pagine dell’ordinanza di custodia con cui la settimana scorsa il giudice Bruno Giordano - accogliendo la richiesta del pm Marcello Musso - ha spedito dietro le sbarre Gugliemo Fidanzati, figlio primogenito di don Tanino: perchè nella storia che ha Guglielmo per protagonista e per comprimari una banda di serbo-montenegrini, si vede come il marchio di fabbrica «Fidanzati» abbia ancora un suo peso nei mercati internazionali, un suo fascino nei confronti delle nuove bande che si affacciano alla conquista di Milano. Ma la potenza economica davvero non è più quella di un tempo. Nei loro anni ruggenti, trenta chili di droga i Fidanzati li avrebbero ordinati a occhi chiusi. Nella Milano del 2011, l’erede di don Tanino si deve arrabattare come un matto alla ricerca dei finanziatori, alla fine non ce la fa, l’operazione naufraga e lui fa una pessima figura.
In Guglielmo Fidanzati i finanzieri del Gico si imbattono seguendo la traccia di un gruppo di montenegrini che si danno un sacco da fare per sbarcare a Milano. Sono emissari del «Gruppo America», un clan mafioso che pare vada per la maggiore. Nell'aprile del 2009, in via Marco Aurelio, vengono catturati due tirapiedi albanesi dell’organizzazione mentre impacchettano otto chili e mezzo di cocaina: anche quelli, dice il Gico, erano destinati a Fidanzati. Ma la banda non demorde. E Miki Lasic, il più attivo del gruppo, si vanta con i soci che stanno in Slovacchia di avere il contatto giusto: «Un siciliano di Palermo, un uomo di prima classe», «un grande lavoratore». Nelle intercettazioni se ne parla solo come «Il Vecchio», a volte come «Guglielmo». Ma «il Vecchio» non è facile da incastrare. Non possiede un telefonino. Le poche volte che parla, usando un cellulare che si fa prestare, non dice nulla. Ma, purtroppo per lui, parlano gli altri, i montenegrini. Ed è così che Fidanzati viene identificato, intercettato e pedinato mentre va a incontrare in giro per l’europa i referenti dell’organizzazione. A Bratislava, in Slovacchia, e soprattutto a Villach, in Austria, dal celeberrimo ristorante «Josef». «Sta arrivando il nostro uomo, ha un pizzetto bianco e la borsa “Italia”», lo preannunciano incautamente gli slavi.
Ma all’incontro decisivo con i montenegrini, quello in Spagna per la consegna della coca, Fidanzati non si presenta. Lasic lo giustifica col capo: «Sta aspettando la gente che deve venire a giocare la partita e quelli là sono ancora in ritardo». Traduce il giudice: «Fidanzati non è ancora riuscito a raccogliere il denaro che progetta di racimolare da altri». Insomma, una figuraccia.

Da Bratislava vanno su tutte le furie: «Ma fanculo! Che modi sono!». E dire che per racimolare i quattrini, secondo l’ordinanza, Guglielmo Fidanzati si era persino rivolto ai calabresi: e anche questa è una cosa che, ai suoi temi d’oro e di sangue, suo padre non avrebbe mai fatto.

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