Politica

E adesso Washington teme un patto Damasco-Teheran

Nella regione si delinea un nuovo asse dopo la prestazione militare dei filo-iraniani di Hezbollah

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Il peggio, in teoria, potrebbe anche essere passato. Il più difficile, però, deve ancora venire. In queste brevi parole si riassumono le reazioni americane all’imminente cessate il fuoco nel Libano. Che soddisfa solo in parte l’amministrazione Bush, che si era battuta per qualcosa di diverso e di più «definitivo» che forse esisteva soltanto nel libro dei sogni. All’Onu è finita con un compromesso che l’ambasciatore Usa, il «superfalco» Bolton ha dovuto sponsorizzare e che non soddisfa né le sue inclinazioni personali, né l’impostazione generale della Casa Bianca, né gli sforzi lunghi ed intensi del segretario di Stato Condoleezza Rice. Un compromesso che, per di più, ha dovuto essere «arrangiato» proprio con la Francia, il meno amato fra i vecchi alleati dell’America.
Adesso l’Amministrazione pensa comunque al futuro e cerca di rimettere in piedi la macchina dei negoziati e delle pressioni. I commenti pubblici (comprese le parole dello stesso Bush) sono cauti e molti più laconici del solito: il governo americano non intende farsi trascinare nelle polemiche sull’interpretazione dell’accordo e tanto meno nel gioco del «chi ha vinto» e «chi ha perso». Anche perché questo bilancio è meno favorevole a Israele di quanto a Washington si auspicasse e si prevedesse, almeno sul piano psicologico.
A Washington si temono soprattutto due cose. La prima è che la linea emersa dal documento non risolva il problema centrale da cui il conflitto è scaturito. La Rice aveva espresso più volte, nei colloqui e nelle dichiarazioni pubbliche, la convinzione che una formula insoddisfacente possa lasciare aperta la porta a un bis «in pochi anni, in pochi mesi o in pochi giorni», ma non è riuscita a costruire una maggioranza a questo scopo. Il secondo allarme è che gli hezbollah, se non usciranno militarmente eliminati dal Libano nei mesi a venire anche ad opera della Forza internazionale raccomandata dall’Onu, possano riprendersi e mettere a frutto quello che in America si riconosce essere stato un loro successo politico: il saper reggere molto più a lungo del previsto alla «macchina da guerra israeliana», che aveva abituato tutti a condurre vittoriose guerre-lampo.
Particolarmente angosciose sono le «immagini statistiche» degli ultimi due giorni di «guerra ufficiale», con il massimo di perdite fra i soldati di Israele e il massimo di missili lanciati dagli hezbollah in quella che potrebbe essere stata la girandola finale. In questo modo Nasrallah potrà, si teme, trarre aumentato prestigio nel mondo arabo dalla sopravvivenza della sua organizzazione e indirettamente rafforzare il ruolo di leadership cui l’Iran aspira nel Medio Oriente. La guerra nel Libano è stata anche, a Washington certo non lo si dimentica, una guerra per interposta persona fra l’America e l’Iran, parte integrante di un conflitto più ampio al cui centro sta il riarmo nucleare di Teheran.
Uno scontro diretto non pare imminente. L’amministrazione Bush potrà, come molti indizi lasciano credere, rivolgere la propria «attenzione» più immediata alla Siria. I rapporti tra Washington e Damasco si vanno continuamente deteriorando, anche se non sono chiare le intenzioni del dittatore Assad Jr.

La Siria potrebbe, sia pure «contronatura» entrare a far parte di un’alleanza a guida degli ayatollah sciiti, il cui prestigio risulterà probabilmente accresciuto dalla impressione di solidità militare lasciata dai loro clienti di Hezbollah.

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