E per cinque giornate Radetzky scelse di non usare il cannone

La ricorrenza non è di quelle tonde e solenni che danno fiato alle trombe dell’ufficialità: ma i centosessant’anni trascorsi dalle Cinque giornate di Milano (18-23 marzo 1848) sono degni d’un ricordo: sollecitato anche dalla pubblicazione di un libro di Giorgio Ferrari: Le Cinque giornate di Radetzky (La vita felice, pagg.253, euro 12,50). Il mutamento apportato al soggetto della narrazione - le cinque giornate non di Milano ma di Radetzky - tradisce un intento revisionistico. Nella controcopertina del volume è infatti affermato che l’episodio milanese è stato sottoposto «a decenni di incrostazioni retoriche» e che esso ebbe come protagonista Joseph Wenzel Radetzky, «l’uomo che perse, riconquistò, e tutto sommato salvò Milano dai cannoni austriaci, rendendosi meno spietato di come abitualmente lo ricordiamo».
Mi pare che Ferrari si riferisca a sentimenti e risentimenti d’un tempo lontano. Il dominio austriaco ebbe le repressioni, lo Spielberg, le forche che una pubblicistica arcipatriottica non s’è stancata di vituperare. Ma ormai è risaputo che l’amministrazione austriaca nel Lombardo-Veneto fu molto migliore di quella dell’Italia unita. Un avvocato bolzanino di lingua tedesca - ma molto amico dell’Italia - mi spiegò tanti anni fa cosa fosse avvenuto con il passaggio di sovranità nel Sud Tirolo, dopo la Grande Guerra. Una pratica - me la citò con precisione ma ho dimenticato - che fino al giorno prima costava, poniamo, cento lire ed esigeva due settimane per il disbrigo, costò mille lire e richiese due anni. Non tema Ferrari, i burocrati di Vienna sono stati riabilitati ed era giusto. C’è chi tenta di riabilitare anche il Regno borbonico e lo Stato della Chiesa, e mi sembra meno giusto.
Riabilitato dunque anche Radetzky, cui piaceva vivere a Milano, e che a Milano volle morire, il 5 gennaio del 1858: un decennio quasi esatto dopo l’insurrezione milanese i cui contorni sollevano tuttora alcuni interrogativi. Fu movimento di popolo o un’azione promossa e coordinata dagli ordini d’una dirigenza? Certo quell’ondata ribelle appartenne in pieno alla voglia di novità dell’Europa. Troni e simboli dell’ordine ripristinato dopo la bufera napoleonica cadevano uno dopo l’altro, a Vienna Metternich, a Parigi Luigi Filippo. Secondo Ferrari la cospirazione fu lungamente preparata e le autorità ne ebbero tempestiva notizia. Del resto non si poteva pensare che Milano rimanesse estranea all’incendio che divampava dovunque.
Sulla prevedibilità dell’insurrezione sono d’accordo con lui. Sull’esistenza di una strategia razionale lo sono meno. Diciamo piuttosto che si combinarono, nella deflagrazione, elementi diversi.
Il risultato fu qualcosa di straordinario per eroismo e per altezza di passioni. La gente delle campagne, timorata di Dio e obbediente al prete, era austriacante. La nobiltà era divisa. Tra i più insigni personaggi delle Cinque giornate figurano i massimi nomi del patriziato lombardo. Ma c’erano, e come, gli umili. Ha scritto Montanelli: «Gli austriaci avevano perso seicento uomini, degli insorti non si è mai più saputo ma pare che fossero circa altrettanti. Con certezza si è saputo soltanto ch’erano in stragrande maggioranza popolani. Era la prima volta che succedeva. Purtroppo fu anche l’ultima». Poi avvenne, al ritorno di Radetzky vittorioso, che erompesse dalla folla la frase liberatoria: «Hinn stàa i sciuri», sono stati i signori.
Radetzky fu magnanimo, nel trionfo. Non mancarono, nelle Cinque giornate, episodi di ferocia, di avidità. Li ritroviamo sempre quando si scatena una rabbia collettiva. Ma nel tumulto spiccarono tratti di cavalleria e di umanità che potremmo definire deamicisiani se «Edmondo dei languori» non fosse passato di moda.

Giuditta Meregalli, l’amante milanese di Radetzky, fu presa prigioniera dagli insorti. Non le torsero un capello, Claretta Petacci è stata meno fortunata. Notabili austriaci o austriacanti furono presi e anche loro risparmiati. Altri tempi e altre giornate.

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