E i profani tifano per il massacro

Milano«Mi diverto di più quando guardo giocare mio figlio», dice Gallucci Vincenzo, vigile urbano e padre di un rugbista di undici anni mentre scende dal terzo anello di San Siro alla fine di Italia-Nuova Zelanda. Ed è possibile che non sia il solo. Perché la grande folla dei profani, il popolo degli infedeli in attesa di conversione alla religione della palla ovale, ieri scopre qualcosa che la propaganda ufficiale non dice: e cioè che una partita di rugby può essere anche brutta. E quando è brutta lo è fino in fondo, ostica e a volte persino un po’ pallosa, quarti d’ora filati di craniate tra piloni senza che l’azione si sposti di un centimetro. Cose che solo l’altro pubblico, quello minoritario degli intenditori, dei praticanti, degli ex praticanti, può apprezzare.
Ma gli ottantamila di San Siro scoprono qualcosa di altrettanto importante: ed è che anche quando è brutta e noiosa una partita di rugby è un evento diverso da ogni altro, perché è fatta di sincerità. Solo qui puoi essere certo che se qualcuno si rotola per terra tenendosi una coscia sta davvero vedendo per il dolore tutte le stelle del firmamento.
Quando l’Italia scelse di sfidare la Nuova Zelanda a San Siro furono in tanti a farsi prendere dai dubbi. Solo per riempire i primi due anelli, servivano più spettatori di quelli che il Flaminio di Roma accoglie in tre partite del Sei Nazioni. Riempire il terzo anello poi sembrava un’idea da illusi o da sognatori. Invece un quarto d’ora prima del fischio d’inizio a San Siro non entrerebbe più un pulcino. Per capire come sia stato possibile bisogna guardare con attenzione le facce della gente, sentirne i discorsi. Sono i loro discorsi a raccontare che la stragrande maggioranza non solo non ha mai visto una partita di rugby in vita sua ma sostanzialmente non sa nemmeno di cosa si tratti, non ne conosce le regole e le dinamiche. Però si è innamorata o almeno incuriosita della sua filosofia, quella che a costo di sfiorare il luogo comune parla di terzo tempo, di lealtà, eccetera eccetera. Un miracolo di marketing sportivo, si potrebbe definirlo. Che però non basterebbe a riempire San Siro se in campo non ci fosse un altro prodigio del marketing, una squadra che oggi sicuramente non è la più forte del pianeta, che non vince una Coppa del Mondo da una vita, che si è fatta strapazzare a più riprese persino dalla Francia. E che ciò nonostante agli occhi del mondo intero è l’essenza del rugby. Così quando i primi All Blacks spuntano dal tunnel di San Siro gli ottantamila si azzittiscono di colpo. Tacciono gli intenditori e tacciono i profani, perché comunque l’aura che questi bestioni si portano dietro è visibile, palpabile.
E la loro danza di guerra sarà anche un rito già visto mille volte: ma proprio per questo emoziona e azzittisce San Siro ancora di più, come se ottantamila persone tutte insieme vedessero per la prima volta Manhattan o la Gioconda. Poi c’è la partita, e il popolo di San Siro tifa Italia ma in modo un po’ strano, perché intanto vorrebbe anche che i bestioni in nero ci dessero dentro di più, ci rullassero senza pietà.

Michele Manghi e suo figlio Enea fanno parte dei tanti che sono alla prima partita live della loro vita: «A volte è stato spettacolare – dice Michele - a volte quasi noioso. Mi aspettavo di vedere più gente che correva, più movimento». Ma quei sessanta secondi in cui gli All Blacks urlano che la lotta è il senso della vita, il piccolo Enea se li ricorderà lo stesso per un sacco di tempo.

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