E l’«altra parte» dell’isola sogna l’Europa

E l’«altra parte» dell’isola sogna  l’Europa

nostro inviato

nella Repubblica Turca

di Cipro Nord

La Repubblica che Non C’è comincia appena oltre le mura veneziane di Nicosia, là dove queste appaiono sfregiate da una cicatrice continua di filo spinato. Sulla catena montuosa di Pentedaktylos, dopo il tramonto, migliaia di lampade si accendono in lontananza per formare la sua immensa bandiera, bianca, rossa, mezzaluna e stella: proprio come quella della Turchia, ma a colori invertiti. Tale è l’esito, come lo si può vedere dalla periferia nord della capitale di Cipro, delle ferite inferte all’isola nell’estate del 1974 dai combattimenti tra greco-ciprioti ed esercito turco, sbarcato in massa per impedire l’avverarsi del sogno ultranazionalista delle milizie filoelleniche dell’Eoka. Le quali avevano tentato un colpo di Stato per fare di Cipro tutta - maggioranza greca e minoranza turca senza alcuna distinzione - parte integrante della Grecia, allora sotto il tallone dei militari.
Quel sogno soffocò nel sangue e nell’isola il tempo si fermò. A sud della linea dell’armistizio del Ferragosto ’74 c’è ancora una Repubblica di Cipro, solo greca però, erede diretta di quella divisa a cannonate. È diventata col tempo piuttosto ricca, sfruttando il proprio ruolo di piazzaforte finanziaria e il levantino senso commerciale dei suoi abitanti. Nel 2004 è entrata nell’Unione Europea e da ieri ha adottato l’euro come propria moneta. A nord invece - circa un terzo della superficie dell’isola - 40mila soldati di Ankara e 150mila coloni sbarcati anno dopo anno dalle regioni più povere dell’Anatolia hanno rimpolpato le fila dei circa centomila turco-ciprioti «indigeni» e tutti insieme vivono tagliati fuori dal mondo (o quasi) nella Repubblica che Non C’è. Ovvero nella Repubblica Turca di Cipro Nord, uno Stato autoproclamato che ha una bandiera (come si è detto), un presidente, un Parlamento democraticamente eletto, radio e televisione, un aeroporto e perfino una moderna superstrada infestata - come dev’essere nel XXI secolo - da autovelox e inflessibili poliziotti.
Ma che ha anche un problemino accessorio: la comunità internazionale si rifiuta di ammetterne l’esistenza. Lo considera il frutto illegittimo di uno stupro subìto da uno Stato membro dell’Onu. Una cui risoluzione vieta a chiunque, tra l’altro, di entrare a Cipro passando dal Nord e di commerciare con quel non-Paese. La Repubblica che Non C’è sopravvive dunque grazie alla Turchia che, unica nel mondo, ne riconosce la legittimità e le assicura rifornimenti e contatti col resto del pianeta. Da un porto turco, quello di Mersin, arriva la posta e da lì viene spedita nel mondo quella dei turco-ciprioti. Dagli aeroporti turchi arrivano anche i pochi turisti, attirati da luoghi isolati e non di rado bellissimi, basti pensare all’incontaminata penisola di Kàrpaso dove pare che il miliardario russo Abramovich aneli a sbarcare con rubli e mattoni, per ora senza successo. E sempre solo tramite amici in Turchia i residenti della Repubblica che Non C’è possono fare cose per noi normalissime, come un acquisto via internet.
I turco-ciprioti, al contrario dei loro «compatrioti» greci, hanno votato nel 2004 per riunificare l’isola in ambito Ue. Il loro presidente Mehmet Ali Talat vorrebbe che entro la fine del 2008 un compromesso consentisse la fine di questa situazione surreale, ma le speranze sono poche. Molto dipenderà dall’esito delle presidenziali greco-cipriote del prossimo febbraio. Se sarà confermato il nazionalista conservatore Tassos Papadopoulos non si sposterà una foglia, dovesse invece vincere il suo avversario comunista (a Cipro falce e martello non passano mai di moda) Dimitris Christofias, coi suoi antichi studi a Mosca e il suo look da Peppone, qualcosa di sorprendente potrebbe accadere.
Intanto si trascinano nel tempo autentiche assurdità. Come a Famagosta, altra antica e splendida piazzaforte veneziana rimasta nel settore turco dell’isola subito a ridosso della linea del cessate il fuoco. Qui i generali di Ankara giocarono sporco e presero con la forza il controllo anche di Varosha, una spiaggia di sogno che sarebbe dovuta restare ai greci. Sette chilometri di sabbia dietro ai quali nel 1974 erano disponibili 14mila dei 18mila posti-letto in albergo di tutta Cipro. Oggi è una sinistra città fantasma, che i turchi sorvegliano senza averla mai occupata. Un luogo silenzioso e folle chiuso dal filo spinato, dove l’orologio si è fermato un terzo di secolo fa come per un terremoto. Visitarla è un privilegio per pochi, i militari turchi tirano il freno. Si raccontano cose strane, di case disabitate con mobili, letti ed elettrodomestici al loro posto; di vetrine di concessionari d’auto intatte con dentro ancora assurdamente esposti agli occhi di nessuno i modelli allora freschi di fabbrica.
Se Varosha è la Pompei cipriota del Novecento, Famagosta turca non sta molto meglio. I suoi splendidi monumenti risentono dell’incuria, figlia di una povertà cui è arduo sfuggire. Il signor Erkut Sahali, assistente del sindaco Oktay Kayalp, è orgoglioso del lavoro fatto per riordinare la piazza su cui si affacciano capolavori come la cattedrale gotica di San Nicola (ormai da secoli moschea). E con dignità spiega come sia difficile, per una Repubblica che non c’è, ottenere da istituzioni internazionali fondi per restaurare opere d’arte.

Il sindaco Kayalp aggiunge che per aggirare l’ostacolo ha provato più volte a rivolgersi direttamente a suoi colleghi all’estero, «primo fra tutti il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, in nome di un comune passato». Risultato? «Neanche ci ha risposto». Poi, incalzato, fa capire che il collega veneziano un qualche segno di solidarietà deve averlo dato. Ma sottobanco, com’era inevitabile.

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