E LI CHIAMANO PROFESSORI

Un’antica leggenda narra che non bisogna mai guardare negli occhi la statua di Minerva. È lì, al centro della città universitaria, e dicono che porti sfiga. Forse è la maledizione della dea che non permette a professori e studenti di guardare in faccia la verità. La Sapienza, che deve il suo nome a questa maledetta dea, è vittima della cecità ideologica. Guido Pescosolido, preside a Lettere e Filosofia, resta segregato venti minuti in un ufficio. Qualcuno lo minaccia. Minaccia i suoi figli. Un manipolo di poliziotti in borghese deve scortarlo all’uscita, come un arbitro di periferia, in quei campi di provincia da giustizia mafiosa. Ma qui, in questa megalopoli universitaria, dove gli esami sono una catena di montaggio, una domanda e ti giochi tutto, e avanti il prossimo, che fuori ce ne sono altri cinquecento, la storia del professor Pescosolido non fa scandalo. È normale. Nessuno tocchi l’ultimo soviet degli studenti.
Sono le voci di certi baroni che fanno tristezza. È questa voglia di minimizzare. È Giuseppe Monsagrati, storico del Risorgimento, che sussurra: «La situazione è talmente tranquilla che da due anni non ci sono occupazioni». Le occupazioni vissute come piene del Nilo. Un capriccio degli dei. È Lucia Ronchi De Michelis che se la prende con il governo, «in cui siedono i fascisti che hanno un’idea di potere totalitaria». È Lucio Barbera, preside di Architettura, che dice: «Qui il problema è che ci tocca formare una generazione di travet. Alla Sapienza sono anni che c’è calma assoluta. Se i giovani non contestano all’università quando lo fanno?». È la prima legge della gioventù: chi non è rivoluzionario a 20 anni è senza cuore. Ben venga il collettivo e la caccia a Pescosolido. «Un gesto politico - filosofeggia Barbera - nel quale ho visto almeno un segno di vitalità».
Gli studenti «normali» sono avvisati. Voi che vi svegliate alle cinque del mattino per arraffare un posto in queste aule da caravanserraglio, strapiene di sudore e caffellatte. Voi, studenti fuorisede, che abitate in case dalle pareti scrostate, in due o tre per stanza, con affitti che ti tolgono la pelle e guardate i professori laggiù come oleogrammi, con cui non avete mai parlato. Voi, figli di operai, contadini, commercianti del Sud, che conoscete tutti i discount dove la pasta e il tonno costano di meno. Voi che non avete il coraggio di dire ai vostri nonni che quel pezzo di carta vale poco o niente. Voi che sognavate di fare Lettere perché vi piaceva scrivere. E per quattro anni nessuno vi chiederà di farlo. Voi che vivete nell’università con il più alto numero di fuoricorso al mondo. Voi che credevate al motto di un certo Gramsci: «Studiare, studiare, studiare». Gramsci, uno che il fascismo l’ha conosciuto davvero, e sapeva che per i «figli del popolo» la strada per emanciparsi dalla miseria è l’istruzione. L’altra, sosteneva, è la rivoluzione, ma anche per quella un po’ bisogna studiare.
Ecco. A tutti voi questi professori hanno detto: rassegnatevi. Siete dei travet. I ragazzi svegli fanno gli «antifascisti militanti». Sono loro, rivoluzionari con la minestra in caldo, gli unici intellettuali di professione.

Quelli per cui il marcio della Sapienza è tutto in una conferenza sulle foibe. Quelli che piacciono ai baroni e tengano alto il fuoco dell’antifascismo senza fascismo. Sono loro gli studenti modello.
Studiare? È roba da travet.

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