Rimozione, come da manuale di psicologia: «Meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e insostenibili dallIo, e la cui presenza provocherebbe dispiacere». Applichi il concetto alla politica e ti ritrovi a Bologna, dove lIo è il Pd, e dove il «residuo mnestico» da (far) dimenticare si chiama Cofferati Sergio, il sindaco che, col sollievo della città e del suo partito, sè autoesiliato a Genova, e che da Genova è stato immediatamente rimbalzato a Bruxelles.
Luomo che da leader della Cgil portò al Circo Massimo tre milioni di persone, roba che prima di lui solo Nerone e dopo nessuno, ché Walter Veltroni ci provò, ma invano, luomo che riuscì nellimpresa titanica di ricompattare il centrosinistra strappando le Due Torri a Giorgio Guazzaloca che per primo aveva espugnato il fortino rosso, adesso è un uomo fermo su un sasso, a metà del guado fra una città che non lo vuol nemmeno nominare e unaltra che fa finta che non esista. Al punto che, fatto strano in campagna elettorale, qui da mesi non si taglia un nastro. Lammissione da parte del partito è arrivata, catartica come in ogni processo psichico che si rispetti, un paio di giorni fa, quando uno dei circoli storici di Bologna ha annullato e rinviato «a data da definirsi» la presentazione di un libro che racconta i cinque anni del Cinese sindaco. Motivazione ufficiale: «In questa fase vogliamo trovare punti che uniscano, non elementi che eventualmente dividano». Là dove l«eventualmente» è solo di cortesia, visto che, racconta lo staff del sindaco, il motto qui era: «Con chi litighiamo oggi?».
In effetti, il libro di Mirko Billi, Andrea Bonzi e Olivio Romanini proprio comodo non è, se pure i tre giornalisti bolognesi dichiarino di averlo scritto dal divano di palazzo DAccursio. Titolo significativo, «Lo chiamavano Tex», è una sorta di dizionario del cofferatismo, con 22 voci dalla A di «Addio» alla tormentata Z di «Ztl», che giudica impietoso: «O larrivo di Edoardo ha completamente trasformato il Cinese al punto da fargli perdere qualunque interesse per la sua attività politica e istituzionale, oppure la famiglia è stata il paravento dietro il quale nascondere la fine di un amore, forse mai sbocciato, per la città».
E qui, a Bologna, di liti ce nè già abbastanza, in una campagna elettorale in salita che solo a pochi giorni dal voto vede il candidato del centrosinistra, Flavio Delbono, in testa ai sondaggi, merito anche, bontà sua, del centrodestra, che corre con due candidati forti, Guazzaloca e il patron del Motor Show Alfredo Cazzola.
Fino a un paio di settimane fa, il commento meno impietoso sulla corsa bolognese dovevi scovarlo a Firenze, con il sindaco uscente Leonardo Domenici a commentare: «A palazzo Vecchio rischiamo il ballottaggio, ma stiamo messi sempre meglio che a Bologna». Le beghe però mica sono finite. A proposito di rimozioni, Delbono si ostina a tappezzare la città con la sua faccia ma senza il simbolo del Pd.
Nel partito, poi, è spuntata una corrente che dichiara di fare resistenza passiva, ma in realtà promette di demotivare un elettorato già allibito. Il problema è che, con mossa inedita da queste parti e nella tradizione del fu Pci, il segretario provinciale Andrea De Maria si è candidato anche al consiglio comunale, incurante del doppio ruolo, imponendo che ogni candidato sia abbinato a un circolo che dovrà votarlo. È stato subito caos, con metà del partito ad accusare De Maria di cannibalizzare le preferenze, «lui può contare su 20 circoli», il vicesindaco Giuseppe Paruolo a rinunciare al sostegno di quello che gli è stato affibbiato dufficio, il presidente del consiglio provinciale Maurizio Cevenini a chiamare al voto tutti i suoi 5.800 sostenitori alle primarie, alla faccia delle regole.
E Cofferati? Voleva fare il consigliere regionale in Liguria, meglio ancora il sovrintendente del Teatro Carlo Felice. Genova però lo ha spedito prima che arrivasse, candidandolo alle Europee.
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