E ora il Partito comunista confisca il tesoretto

«Espropriare gli espropriatori». Fu uno dei primi, più efficaci slogan del marxismo-leninismo. Chi dice oggi - quasi tutti lo dicono - che il Partito comunista cinese ha tradito tutti questi principi trasformandosi in potere capitalista può essere, almeno in un caso, smentito. Il Partito ha infatti deciso di espropriare Mao, a prudente distanza di oltre trent’anni dalla sua morte. L’esistenza del «tesoretto» del Grande Timoniere non è stata rivelata per «far luce sul passato», ma come base giuridica per la sua confisca. Processo breve, agevolato dal fatto che Mao non fece testamento e che l’ultima delle sue mogli, che non sarebbe stata aliena da trasformarsi in ereditiera, è morta in carcere. La testimonianza decisiva è stata quella del Politburo che ha sanzionato come le opere letterarie di Mao non sono il prodotto dell’ingegno di un singolo, ma costituiscono «l’essenza della saggezza collettiva dell’intero Partito comunista». Cui dunque spetta l’eredità, ammesso che si possa usare questo termine quando una proprietà non passa formalmente di mano.

Confisca è forse parola più adatta e ha del resto un precedente: lo Stato si è incamerato anche i diritti d’autore delle memorie dell’ultimo imperatore della Cina Pu Yi. A Mao hanno lasciato la faccia stampata sulle banconote. \

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