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E ora perfino il robot va in cassa integrazione

E ora perfino il robot va in cassa integrazione

Robot disoccupati e robot mendicanti, in cerca della carità di un pezzo di ricambio o di una lattina d’olio, erano apparsi, prima ancora che nel cartone animato Robots di un paio d’anni fa, nei romanzi di uno scrittore americano, Ron Goulart, a cavallo fra gli anni '60 e '70. I robot da rottamazione erano il plausibile risultato di quello che all’epoca veniva visto come un imminente Rinascimento tecnologico, che avrebbe tolto dalle spalle degli umani il peso dei lavori usuranti o ripetitivi, per affidarli a manodopera cibernetica a basso costo. Era dunque ipotizzabile (anche se poco probabile) che i robot obsoleti finissero per essere emarginati, esclusi dal lavoro. Ogni Rinascimento ha i suoi retrobottega.
Poi le cose sono andate diversamente. Nei nostri garage, nel 2008, non entreranno gli «autogiri», i monopattini atomici o gli scooter volanti, ma la Cinquecento...
E di robot, in giro, se ne vedono pochini.
Cioè, per esserci ci sono, esistono da un sacco di tempo, ma non hanno l'aspetto immaginato da Isaac Asimov, Arthur C. Clarke o Ray Bradbury. Sono i robot delle linee di montaggio automobilistiche, quelli che disinnescano le bombe o esplorano altri pianeti e le profondità marine: congegni utili, spesso straordinari, ma che non hanno certo il fascino delle creature antropomorfe disegnate sulle copertine dei pulp americani di 50 anni fa: scintillanti uomini meccanici dall’aspetto talvolta inquietante, soprattutto quando venivano raffigurati con una bella ragazza inanimata stretta fra le loro braccia metalliche.
Temuti o desiderati, i robot sono stati visti come un futuro inevitabile. Per loro il grande Asimov aveva già creato le famose Leggi della Robotica. Pensavamo che sarebbe venuto il giorno in cui le nostre città avrebbero visto camminare, accanto agli umani, i fieri rappresentanti di una nuova progenie meccanica. Invece no. I pochi robot antropomorfi realizzati finora sono rimasti poco più di una curiosità, e non certo un fenomeno di massa. La forma umana è semplicemente poco pratica per dei robot e per le funzioni a cui vogliamo destinarli. Meglio farli a forma di scatola, o di ragno, o di pallone da calcio.
E adesso, prima ancora che si siano affermati, arrivano già i tempi duri, per i robot fatti a nostra immagine e somiglianza.
Prendete il povero Wakamaru, che solo due anni fa era stato la star dell’Expo internazionale di Aichi, e ora è ridotto a lavorare per un’agenzia interinale. Siamo davanti al primo, incontrovertibile caso di mobbing ai danni di un automa. I robot antropomorfi non sono ancora entrati nel mondo del lavoro, e già davanti a loro, creati rigidi e con ambizioni di eternità, si apre invece un possibile futuro di lavoro temporaneo e flessibilità. Che beffa. A meno che le intenzioni di chi ha ideato questa operazione non siano quelle di creare, in noi umani, empatia per queste nostre imitazioni meccaniche, e un senso di sollievo nel vedere che lungi dal sostituirci, i robot finiranno per condividere i nostri problemi, per subire anch’essi gli stravolgimenti del mercato del lavoro. L'unico loro margine di vantaggio rispetto a noi è che per ora non dovranno pagare le tasse, preoccuparsi della pensione o fare code per l'assistenza sanitaria. Ma è solo questione di tempo.
Forse aveva visto giusto Steven Spielberg, nel film A.I. Intelligenza Artificiale: forse il futuro, per i robot, sarà quello di nostre vittime, di capri espiatori, oggetto di sfogo delle nostre paure e rabbie e frustrazioni. Wakamaru è lo sfortunato apripista di un futuro che Asimov non si era mai immaginato. Ma Ron Goulart sì.

E non è un bel futuro per i nostri cugini meccanici.

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