E ora lo scontro si sposta sul rinnovo dei contratti

Confindustria avverte i sindacati: niente rincorsa tra prezzi e salari. Tremonti: con Ici, straordinari e misure sociali aiuteremo il ceto medio

da Milano

È alla crescita e non all’inflazione, o agli automatismi contrattuali, che bisogna guardare. Altrimenti non si fa un buon servizio neppure a quei lavoratori che si vogliono tutelare. Così la pensa Mario Baldassarri, uno degli economisti di punta del centrodestra, esperto di politiche monetarie e industriali, attuale presidente della la commissione Finanze e tesoro del Senato e già viceministro dell’Economia, dal 2001 al 2006. Per Baldassarri la polemica che si è scatenata intorno all’inflazione programmata, indicata nel Dpef del governo, e alla sua differenza rispetto a quella stimata dall’Istat, è priva di senso in partenza. Ma se anche un senso ce lo avesse, è la strategia di adeguare i salari nominali all’inflazione ad essere perdente.
Il dato sull’inflazione programmata è ritenuto irrealistico dai sindacati e considerato un attentato ai redditi dei lavoratori, erosi da un’inflazione ben maggiore. Concorda?
«Lo ha già detto il ministro Tremonti: le critiche vanno semmai rivolte alla Banca centrale europea che obbliga i paesi membri a programmare un inflazione sotto il 2%. Se non lo si fa si viene redarguiti dall’Unione Europea. Se lo si fa, si viene redarguiti dai sindacati…»
L’inflazione programmata è un riferimento per i contratti di lavoro nazionali. Il timore è che questa contrattazione di primo livello non riesca più a garantire nemmeno il potere d’acquisto delle buste paga.
«È il modello contrattuale che va rivisto. Non si può restare legati a un’idea che ricorda la scala mobile degli anni settanta. Si deve andare verso un modello contrattuale nel quale è il secondo livello (la contrattazione aziendale ndr) che deve discutere dell’unico elemento che fa salire i salari senza far salire anche i prezzi: la produttività. Aumentando semplicemente i salari nominali non si fa che prendere in giro i lavoratori».
Ma in un momento di bassa crescita in Italia non è opportuno cercare di tenere alti i redditi?
«Non c’è bassa crescita in Italia, c’è bassa crescita in tutta Europa. Quello che bisogna fare è mettersi attorno a un tavolo e vedere come si può tornare al 3% - 4% l’anno di crescita.
E secondo lei com’è che ci si può tornare?
In Italia dobbiamo risolvere problemi strutturali e di produttività, quelli che fanno sì che noi cresciamo dello 0,5% l’anno, contro l’1% della Germania. Ma è anche a livello europeo che devono cambiare le cose. In Europa si continuano a seguire politiche masochistiche: per mantenere l’inflazione sotto controllo si tengono i tassi alti e ci si dimentica del super euro. Peraltro, questa non è un’inflazione che si controlla con la politica monetaria, non è un surriscaldamento dell’economia, è la conseguenza del forte aumento delle materie prime.
Servirebbe quindi una politica più espansiva da parte della Banca centrale europea?
Ci vorrebbe una politica che faccia scendere il cambio dell’euro. Se l’euro fosse a 1,10 contro il dollaro la crescita europea salirebbe al 3,5%. Alle merci cinesi e degli altri paesi paesi asiatici in forte crescita è come se concedessimo un dazio negativo del 50%.

Invece l’Europa continua a guardare al 3% di deficit, al 2% d’inflazione... Bisogna uscire dalla sindrome di Peter Pan. Quelli erano parametri buoni per fare l’euro, abbiamo fatto bene a metterli, ma ora bisogna imparare a guardare oltre.

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